Ponte medievale a due arcate, XIV sec.
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INDICE
-Il fiume e i ponti -Attacca 'u patrone addo' vole lu ciucciu -I' e lu ciucciu, poesia -Il gigante della montagna, video -Olivi e cipressi - Casedde e casini - Vesalo, lo scrigno del silenzio - La Grava di Vesalo. video - Pruno - La tempa del fico, video - Pruno di B. Durante - S. Elena e la sua grotta - La grotta dei "Fraulusi |
- La Dieta mediterranea - Laurino, Le arzille "cummari" centenarie - Li Funtanedde - La miracolosa acqua di S. Rocco - Cauzuni e pizze chiene...La Pasqua laurinese - Lu vicciddu |
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IL FIUME E I PONTI
IL FIUME E I PONTI
Lungo il fiume Calore, attorno ai ponti, fino agli anni '50 del 1900, erano ubicate tutte le attività produttive che abbisognavano di acqua e dell'energia idraulica. A S. Rocco c'era "la cunzaria", la conceria dei Mautone. Un centinaio di metri più giù c'era il mulino che veniva alimentato dal canale che si dipartiva dalla "palata grande" e nei cui ruderi sono ancora le grandi macine di pietra. Accanto funzionava il "Sansificio" della famiglia Pesce per l'estrazione dell'olio dalla sansa, residuo della molitura delle olive. Più su ancora c'era la prima centrale elettrica di "ron Rafaele" Marotta, il cavaliere, la cui turbina era alimentata dal canale della "palata piccola". E infine a destra e a sinistra del fiume, tre maestose "carcare", le calcare per cuocere la calce sopravvissute fino ad oggi. PONTE ALLE FONTANELLE CON VIA ACCIOTTOLATA PRESSO LA FATTORIA MURATA "LA MACERA" Una natura e un ambiente irripetibile e prezioso da curare gelosamente. |
Appollaiato com'era sulla collina, nel Cilento più interno, raggiungere Laurino fino alla costruzione della strada carrozzabile alla fine del 1800, era impresa faticosa e temeraria. Nel 1676 il visitatore diocesano Aniello La Guardia arrivò a Laurino distrutto e si dovette, peraltro, fare accompagnare da "plurimis armatis personis, timore bannitorum", molte persone armate per pericolo dei briganti.
I collegamenti, per tracciati secondari, seguivano ancora le antichissime vie del sale e del grano (la via degli stranieri) che univano le città greche di Elea (Velia) e Poseidonia (Paestum) al Vallo di Diano, attraverso i passi Alfa e Beta e il valico della Preta Perciata a Magliano, aggirando il Gelbison e scavalcando il passo di Corticato. Il resto della viabilità si svolgeva ancora lungo gli storici tratturi della transumanza utilizzati dai pastori in autunno per migliaia e migliaia di ovini e bovini da far svernare nella piana e in primavera per il ritorno. I viaggi avvenivano a piedi o a dorso di asini, muli, e per i più abbienti cavalli. In questo sistema viario Laurino, dai Longobardi ai Normanni, dagli Svevi agli Angioini, dagli Aragonesi ai Borbone, svolgeva un ruolo strategico di sorveglianza per assicurare la regolarità degli scambi di merci e il movimento delle persone. Come si può osservare dalla preziosa stampa di Cassiano de Silva del 1700, anche il borgo fortificato sulla collina poteva essere raggiunto solamente a piedi o a cavallo. Ancora oggi si conservano le stradine acciottolate che, a zig zag, salgono da S. Rocco o dalle Fontanelle per entrare da sud-ovest nel centro storico dai varchi che una volta erano la Porta dei Zippi o dei Monaci e quella di S. Domenico. L'intero percorso dalla costa fino all'intero era servito da un numero rilevante di ponti sul fiume Calore. Dalla stampa sono osservabili i due bellissimi che ancora oggi arricchiscono il paesaggio laurinese conservando un pezzo di medioevo ai piedi della collina. Proprio qui, lo spiazzo di S. Rocco, fornito delle sorgenti delle Fontanelle, era certamente un area di sosta e di insediamento fin dall'antichità. Durante i lavori di restauro della cappella, nello scavo, sono stati rinvenuti numerosi reperti fittili, cocci di vasellame, resti di utensili, ecc. Il sito è di straordinario valore storico e ambientale, malgrado la assurda collocazione del depuratore. PONTE MEDIEVALE A GORGONERO COSTRUITO NEL 1271 PER RAGGIUNGERE LA CAPPELLA DI S. ELENA |
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"Attacca 'u patrone addo' vole lu ciucciu"
In tante ballate popolari si cantava scherzosamente, ma non tanto, che la morte dell'asino era stata pianta più di quella della moglie. "Quannu murìu muglierema i' nun chiangìja accussì, ih oh, ih oh!/ ciucciu bellu ri 'stu core, cume ti vogliu ama', ih oh, ih oh!..".Si trattava naturalmente di stornellate a dispetto, di sfottò alle proprie compagne, soprattutto se bisbetiche. Ma la perdita dell'asino nell'economia contadina era effettivamente una tragedia. Veniva a mancare un lavoratore straordinario, il principale mezzo di trasporto di persone e cose fra casa e campagna, il portatore forte e paziente di carichi eccezionali. La moglie, si, era preziosa. Lavorava anche lei come una somara, sfornava figli a "murriane", prendeva anche botte come il ciuccio. Ma, insomma, se disgraziatamente moriva, spesso di parto, si poteva anche sostituire con un'altra ricavandone magari anche un po' di dote. Anche il ciuccio, se è per questo, si sostituiva, solo che lo "staccone" bisognava pagarlo. |
...Ra fore torna, accavaddu a lu ciucciu/chianu 'na vecchia ccù lu sarcinieddu... |
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I' e lu ciucciu
Ra criaturu m'hanu pasciutu bbuonu cume n'animalettu accussì so crisciutu, aggiu aratu la terra, l'huortu aggiu zappatu, po' chiantatu e mitutu, puru 'na casa m'haggiu fravicata. Ra parte mia aggiu pasciutu bbuonu l'animali, m'hanu ratu lu lattu e la lana, ccù mmanu leggia i' l'aggiu munciuti nn'hanu fattu campà ra cristiani, sempe accussì, l'uni accantu a l'auti. Lu ciucciu aggiu purtatu a lu furgiaru e mente lu firrava e 'u chiuovu inta lu zuocculu frjìa i' scutuljìava li mmosche, chianu, chianu lu pere li tinìja cume fosse 'na manu inta la manu. |
Accussì quannu ija e bbinija
ra la muntagna jddu a cavaddu mi purtava ccù affettu penzuca, ciertu ccù pacienza cuofini e sarcini attaccati a lu mmastu, la curreja ca zicava sott' a la panza. I' penzu a bbote, nun sacciu s'è lu veru, ca puru jddu mi vulesse bbene. A lu mulinu purtavamu lu ggranu, turnannu arretu ccù 'a vrenna e la farina, 'mpastava già matrima lu ppane mittennu quant'abbasta ri luvatu e quannu inta a la matra era crisciutu fattu a panedde, era gia 'nfurnatu... Barbato Bruno da 'I scrivu, cantu e sonu cume vene", youcanprint, Tricase 2012 |
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IL GIGANTE DELLA MONTAGNA
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OLIVI E CIPRESSI
In primo piano gli olivi, in secondo i cipressi, Laurino appollaiata sulla collina, sullo sfondo Monte Cavallo in un'atmosfera crepuscolare di forte presa, segnata dal grigio del cielo. Il fascino discreto della fotografia in bianco e nero esprime senza forzature cromatiche l'armonia di un panorama impareggiabile A Laurino, però, c'è la strana opinione che i cipressi siano estranei al nostro paesaggio, roba solo da cimiteri. O da Toscana o da Umbria (hai detto niente!). Nulla di più sbagliato. Il Cupressus sempervirens, originario di Creta e della Turchia, sposato o meno all'ulivo, nobilita l'intero Mediterraneo ed è da sempre presente anche nella nostra campagna in esemplari isolati o a gruppo. Un viale di cipressi davanti a S. Antonio o, a macchie, negli ambienti rocciosi di S. Sofia o al "Belvedere degli ulivi" o anche in alberelli nelle fioriere della piazza impreziosirebbe il paese. |
"Casedde" e "Casini" di campagna.
La campagna laurinese è ancora ricca di casolari rustici in pietra locale meritevoli di essere restaurati in modo filologicamente corretto. Sono "Le casedde". Constano normalmente di 2 volumi, uno a due piani per la famiglia contadina, l'altro più basso per gli animali. Una tipologia a parte sono I casini, vere e proprie residenze di campagna delle famiglie più abbienti, a volte murate o fortificate con torrette, colombaie e feritoie. I più belli erano il Casino di Ovidio, il Casino rosso, il Casino dei Marotta a S. Rocco. Il primo, stravolto, è ormai irriconoscibile. Gli altri fanno ancora bella mostra di sé. Un altro ancora a S. Rocco con bella torretta colombaia è in restauro. |
Sotto, Casino rosso.
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VESALO, LO SCRIGNO DEL SILENZIO
Bisogna arrivarci a piedi a Vesalo, di buon mattino, da Huruunìuru, Gorgonero, per l'antico tratturo della Valle Soprana. In Primavera o Autunno. Ascoltare il muggito cupo del Calore imprigionato giù, fra strette pareti, nelle marmitte di pietra scolpite da giganti misteriosi. Rintracciare nella salita, sul masso erratico, "la ciampa ri lu riavulu", l'impronta del demonio che tentava Elena, vergine romitella in fuga dal mondo. Scoprire dietro la selva fitta che si è riappropriata del proprio spazio, le mura diroccate dei casolari antichi abbandonati dai pastori di Casaletto. Fermarsi estatici di fronte alla rossa parete di Piescurufiu indorata dai primi raggi del sole. Sbucare finalmente sul Piano della Fontana fra lo Scanno del Tesoro e La Tempa dei Mulitani, bianche sentinelle di calcare allo scrigno del silenzio. Respirare ginestra e menta selvatica e origano. Ristorarsi alla Fontana gelata di Milenzio. Sdraiarsi sul tappeto di margherite novelle e ciclamini selvatici ascoltando ad occhi chiusi il lamento del cuculo e il martellare del picchio. Sonnecchiare anche e, a volte, sognare. Si, a Vesalo bisogna arrivarci quando non c'è nessuno. |
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LA GRAVA DI VESALO
LA GRAVA DI VESALO
Una cattedrale gotica di pietra creata dal Torrente Milenzio nelle viscere della terra: questa è la grava con le sue aule e deambulacri, stalattiti e stalagmiti come canne d'organo a concertare con l'acqua e il vento la sinfonia del respiro della terra. Lavoro della natura che dura da 200 milioni di anni, questa spettacolare voragine è riservata solo ad esperti speleologi che la ritengono uno dei fenomeni carsici più affascinanti del Meridione. ______________________________________________________________________________________________________________________________________
PRUNO |
L'accesso da Vesalo avviene con inghiottitoio spettacoloso e 2 pozzi di 100 e 43 metri di profondità. (vedi filmato ).
La Grava di Vesalo, malgrado diverse spedizioni è solo parzialmente esplorata. Con anfratti e pozzi, strapiombi, laghi e cunicoli attraversa per circa 10 chilometri il ventre di M. Cavallo per sbucare con uno dei suoi sbocchi a sud di Laurino fra Huruuluongu e Huruu ri li femmene. |
Da sinistra a destra: la nuova casa e il vecchio casolare,
Oggi a Pruno abitano 4 o 5 famiglie che non vogliono saperne di abbandonare la loro scelta di vita. E comunque è tutt'altro vivere. Accanto alle antiche casupole sono sorte nuove e moderne abitazioni con tutti i servizi. C'è la televisione e la luce e la strada per quanto dissestata, consente di arrivare ai paesi in meno di mezz'ora. Come vivere in campagna.
Giù nella parte più bassa Angelo e Donatella, due cittadini profeti di una nuova ruralità, con le figlie Annarita e Mariantonia, hanno costruito il loro rifugio, la stalla per gli animali domestici e per i loro liberi asinelli che a sera ritornano puntuali dal girovagare brado per la montagna. Hanno recuperato l'antica varietà di grano Carusedda e un mulino, curano l'orto biologico, fanno agricoltura steineriana e ospitano girovaghi di tutto il mondo in fuga dalla civiltà del frenetico consumismo.
UN RITORNO AL FUTURO! |
PRUNO, UN RELITTO DI CIVILTA' PASTORALE
Ancora negli anni '70 del 1900 Pruno era uno straordinario relitto del passato. Un microcosmo sopravvissuto ai millenni. Un villaggio di piccoli casolari isolati su una conca montuosa fra il Monte Gelbison e il massiccio del Cervati a una altitudine da 600 a 1300 metri circa sul livello del mare. L'abitavano oltre 100 persone, una cinquantina di famiglie dedite alla pastorizia e all'agricoltura in 3 nuclei principali: Pruno di Laurino, Pruno di Piaggine e Pruno di Valle dell'Angelo. Niente strada e luce elettrica, l'acqua era quella delle ricche sorgive. Il medico più vicino era a 10 chilometri. Il posto era raggiungibile solo a piedi o a dorso d'asino. Non c'era prete e neanche il cimitero e i morti dovevano essere trasportati a braccia su una scala adibita a barella, ai paesi di appartenenza. Le donne partorivano aiutate dalle anziane. L'unico "lusso", a parte la natura incontaminata, era una piccola scuola, terrore delle maestrine di prima nomina che venivano lì mandate a farsi le ossa. Ma i bambini la raggiungevano diligenti da tutto il territorio prunese sfidando ore di cammino, pioggia e neve. Poi finalmente arrivò la strada e la luce elettrica, ma andarono via pian piano le persone. Molti si inurbarono nei paesi, altri emigrarono per il mondo: era arrivata la civiltà e la TV e il confronto con gli agi della vita "civile" era troppo penalizzante per chi viveva di fatica vera nella solitudine. Pochi anziani irriducibili resistono attaccati alle radici. Accanto alle loro nuove case resistono anche i primitivi casolari con tutto l'arredo e gli utensili per la pastorizia e l'agricoltura.
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PRUNO
B. Durante
Cap. III
“…ci andavo con mio padre A Pruno ogni 29 di giugno, giorno di S. Pietro e Paolo. Lo accompagnavo nel suo lungo giro per i casolari isolati di pastori a riscuotere il dazio sui maiali macellati. Al ritorno ci accodavamo al pellegrinaggio che saliva alla Grotta di S. Elena.
Una trentina di tuguri, niente strada o luce elettrica. La mulattiera che si inerpicava quasi a mille metri fra noccioli selvatici, felceti immensi e poi la faggeta. Se qualcuno lassù stava male lo caricavano su una scala trasformata in barella e lo portavano giù in quattro, a forza di braccia. Spesso, dopo cinque o sei ore a ballonzolare sui pioli che gli scassavano la schiena, arrivava più morto che vivo. Già morto, qualche volta. Le donne partorivano nei campi. Al momento. Aiutava la lunga pratica con mucche, asine e scrofe.
Mio padre faceva il daziere. Accompagnarlo in quella spedizione era una sorta di rito di iniziazione, l’ingresso nella maturità. Prima ci andava mio fratello maggiore. Poi a 12 anni papà decise che era il mio turno. “Rimani jamu a lu monte”, domani andiamo in montagna, disse. Mia madre tirò fuori gli scarponi di mio fratello, più lunghi di un paio di numeri, li ingrassò per bene col lardo e me li mise accanto al letto. Neanche una parola si sprecava, a casa mia. Aristocratica e superba, figlia di contadini, i suoi figli dovevano essere sempre i primi in tutto. Le maceravano dentro le parole, a mia madre, senza trovare una via d’uscita. All’ospedale le tolsero trecentocinquanta! calcoli dalla cistifellea. Parole ingiallite di bile, pietrificate dal silenzio, pensai. Tutte lì, bloccate nella pancia. Li conservava come una reliquia i suoi calcoli rinsecchiti in un boccione di vetro. Un vaso pieno di infelicità rappresa. Gialla.
Due paia di calzettoni di lana ruvida compensavano la sovramisura. Si partiva alle 3 di mattina col buio, per non farsi sorprendere dal sole nel pieno della salita. Mio padre portava un grande tascapane con le colazioni e la provvista di sigari, sigarette e tabacco trinciato forte, prelevata dal nostro tabacchino. Da una tasca laterale spuntava minacciosa come un fucile, la macchinetta del Flit per le mosche. Si appoggiava ad un robusto bastone di radica con un grosso nodo all’estremità superiore. Un’arma micidiale buona per eventuali brutti incontri con branchi di cani inselvatichiti o addirittura lupi.
“Un ragazzo del ’99”, mio padre, tempo di arrivare al fronte, a Vittorio Veneto, e beccarsi una pallottola austriaca che gli sfracellò la mascella per esplodere a terra. Ta-pum, ta-pum: gambe maciullate, ma vivo, la sua guerra iniziata e finita. Un culo grande così, ammetteva. Due anni di ospedale militare, la cicatrice che gli deturpava la faccia. E una medaglia al valore, non sapeva perché. Neanche un colpo aveva sparato il valoroso. Aveva poco più di 18 anni. E, per il suo...eroico sprezzo del pericolo nell’assalto alla baionetta contro il tedesco nemico soverchiante di numero…l’avrebbero nominato, in età già avanzata, nientemeno che Cavaliere di V. Veneto. Mah!
Bestemmiatore potente e immaginifico, il suo repertorio superava di gran lunga i 365 santi del calendario. Fascista prima e comunista dopo. Mangiapreti sempre. E puttaniere, il vecchio. Devotissimo di S. Antonio, però. “Si nun era ppì jddu”, ripeteva, “ ’stu cazzu che me la scapulavu vivu ra la guerra!”. Il 13 giugno, alla processione, era il primo dietro la statua del Santo con il Bambino paffutello su un braccio e il giglio bianco nella mano. Nelle foto si sistemava sempre con la guancia buona all’obbiettivo.
Capitolo IV
TEMPI DI LUPI
Il fischio del treno lacera la storia, mi scuote di colpo dallo stato di trance. Peccato. Da quanto tempo non rivedevo così nitide, le facce giovani di mio padre e mia madre? Riuscirò di nuovo a cancellare il mondo fuori dal finestrino, a riannodare il filo, recuperare le visioni tranciate da questo sibilo intruso di presente? Non voglio che il film che pure mi strizza l’anima si interrompa. Sento come una fitta, che se non lo fermo adesso quel tempo non mi parlerà di nuovo. Lo trattengo coi denti. Gli fornisco gli appigli delle ultime immagini che ancora vagano erratiche, nuvole pazze nel torpore della mia testa…mio padre, l’eroe suo malgrado di Vittorio Veneto…i calcoli di mia madre…il picchio mitragliatore di faggi…gli scarponi di mio fratello…
Indietro, sempre più indietro, prima sfocato, poi sempre più chiaro il tempo risponde…
“…dopo un paio di ore siamo al primo casolare giusto per gustare la ricotta calda appena preparata. I recipienti sono luridi, ma quel morbido impasto dal forte sapore di siero cancella la stanchezza. Non faccio lo schizzinoso. Mio padre ricambia con sigarette o tabacco. Dopo mesi di astinenza a fumare foglie secche di granturco, è un regalo prezioso. Ci prepariamo a ripartire con l’omaggio di una prima forma di pecorino nel tascapane, senza riscuotere niente. “Chist’annu nun am’ accisu puorci”. Quest’anno non abbiamo ammazzato maiali, dice, “mal’annata ppi li puorci!” e mio padre annuisce comprensivo. Fissa, però, con noncuranza, senza muoversi, le lunghe pertiche da cui pendono prosciutti, salsicce, salami, prova inoppugnabile del porchicidio. Non mi fotti, sembra dire, in silenzio. Così, per soddisfazione personale. Tanto per chiarire. Bonariamente. Una manfrina rusticana dall’esito scontato. In fondo. Un capicollo o una salsiccia arriva a far compagnia al formaggio nel tascapane. Adesso possiamo riprendere il cammino.
Tempi duri, si sopravviveva così. E fare il daziere garantiva qualche vantaggio. Era il 1954. O il 1955, forse.
Quando, verso le sei eravamo all’altopiano di Vesalo, sul valico, fra i faggi maestosi scavati come caverne, il brutto era alle spalle. Adesso cominciava il lungo saliscendi, casolare per casolare. Sempre lo stesso rituale, abbracci amichevoli coi pastori, più insistiti con le pastorelle, anche se puzzavano di fatica e selvatico. Il tascapane che man mano si svuotava di sigari e tabacco e si riempiva di formaggio, ricotte salate, salumi. Niente dazio. Povera gente e generosa. Ruvidi e primitivi. Una comunità di Amish, isolata dal mondo, sembravano...
A sera, dopo una ventina di chilometri ci fermavamo per dormire a Pruno, un grumo di casolari attorno alla desolata scuola elementare. Sempre alla stesso posto. Amici. Le donne di casa lasciavano i lavori nei campi e cominciavano subito a trafficare per la cena, ravioli ripieni di ricotta o fusilli, come da tradizione. Nei sei o sette anni che ho accompagnato mio padre non mi è mai riuscito di mangiare un primo piatto da loro. Prima di metterci a tavola papà, con gesto grave e solenne, impugnava la sua macchinetta col Flit e cominciava ad insufflare con metodo il soffitto nero di mosche. Quando le zuppiere fragranti di quel bendidio venivano servite, le maledette cadevano a pioggia condendo le pietanze di una superficie scura e agonizzante. La cosa non disturbava i nostri bravi ospiti che si servivano a festa. Ravioli, mosche e DDT. Dicloro-difenil-tricloroetano, non so se mi spiego. “Mangiate, mangiate”, supplicavano. Mio padre accampava la sua solita ulcera io improvvisi mal di pancia. Ogni volta così, l’impunito. I malanni passavano di colpo quando venivano tagliati salami e pecorini. Ma schivare quella pioggia schifosa era una impresa.
Infine, spente le lampade ad acetilene, a cuccia in un tugurio accanto alla stalla degli animali. Un tavolaccio su due alti cavalletti di ferro con un saccone ripieno di foglie di granturco, pidocchi, cimici e altri scarafaggi mostruosi era il letto. I tafani facevano banchetto delle mie carni adolescenti, già pustolose di loro. Il puzzo grasso di letame saturava l’aria. La mattina i pomfi sulla pelle erano colline sanguinolente.
Mio padre cominciava subito a russare rombi di tuono. Io non chiudevo occhio per lo schifo e la paura. Lontano ululavano i lupi. Li sentivo man mano avvicinarsi agli ovili, quasi alla porta cadente della stamberga. Il ringhiare dei grossi cani da guardia, la gola protetta da robusti collari di ferro dentati, accompagnava la mia notte bianca. Per il resto della mia vita non ho più vissuto un buio più assoluto, impenetrabile, una paura così pastosa.
( da La valigia del doganiere, Alphabeta, Bolzano, 2013)
B. Durante
Cap. III
“…ci andavo con mio padre A Pruno ogni 29 di giugno, giorno di S. Pietro e Paolo. Lo accompagnavo nel suo lungo giro per i casolari isolati di pastori a riscuotere il dazio sui maiali macellati. Al ritorno ci accodavamo al pellegrinaggio che saliva alla Grotta di S. Elena.
Una trentina di tuguri, niente strada o luce elettrica. La mulattiera che si inerpicava quasi a mille metri fra noccioli selvatici, felceti immensi e poi la faggeta. Se qualcuno lassù stava male lo caricavano su una scala trasformata in barella e lo portavano giù in quattro, a forza di braccia. Spesso, dopo cinque o sei ore a ballonzolare sui pioli che gli scassavano la schiena, arrivava più morto che vivo. Già morto, qualche volta. Le donne partorivano nei campi. Al momento. Aiutava la lunga pratica con mucche, asine e scrofe.
Mio padre faceva il daziere. Accompagnarlo in quella spedizione era una sorta di rito di iniziazione, l’ingresso nella maturità. Prima ci andava mio fratello maggiore. Poi a 12 anni papà decise che era il mio turno. “Rimani jamu a lu monte”, domani andiamo in montagna, disse. Mia madre tirò fuori gli scarponi di mio fratello, più lunghi di un paio di numeri, li ingrassò per bene col lardo e me li mise accanto al letto. Neanche una parola si sprecava, a casa mia. Aristocratica e superba, figlia di contadini, i suoi figli dovevano essere sempre i primi in tutto. Le maceravano dentro le parole, a mia madre, senza trovare una via d’uscita. All’ospedale le tolsero trecentocinquanta! calcoli dalla cistifellea. Parole ingiallite di bile, pietrificate dal silenzio, pensai. Tutte lì, bloccate nella pancia. Li conservava come una reliquia i suoi calcoli rinsecchiti in un boccione di vetro. Un vaso pieno di infelicità rappresa. Gialla.
Due paia di calzettoni di lana ruvida compensavano la sovramisura. Si partiva alle 3 di mattina col buio, per non farsi sorprendere dal sole nel pieno della salita. Mio padre portava un grande tascapane con le colazioni e la provvista di sigari, sigarette e tabacco trinciato forte, prelevata dal nostro tabacchino. Da una tasca laterale spuntava minacciosa come un fucile, la macchinetta del Flit per le mosche. Si appoggiava ad un robusto bastone di radica con un grosso nodo all’estremità superiore. Un’arma micidiale buona per eventuali brutti incontri con branchi di cani inselvatichiti o addirittura lupi.
“Un ragazzo del ’99”, mio padre, tempo di arrivare al fronte, a Vittorio Veneto, e beccarsi una pallottola austriaca che gli sfracellò la mascella per esplodere a terra. Ta-pum, ta-pum: gambe maciullate, ma vivo, la sua guerra iniziata e finita. Un culo grande così, ammetteva. Due anni di ospedale militare, la cicatrice che gli deturpava la faccia. E una medaglia al valore, non sapeva perché. Neanche un colpo aveva sparato il valoroso. Aveva poco più di 18 anni. E, per il suo...eroico sprezzo del pericolo nell’assalto alla baionetta contro il tedesco nemico soverchiante di numero…l’avrebbero nominato, in età già avanzata, nientemeno che Cavaliere di V. Veneto. Mah!
Bestemmiatore potente e immaginifico, il suo repertorio superava di gran lunga i 365 santi del calendario. Fascista prima e comunista dopo. Mangiapreti sempre. E puttaniere, il vecchio. Devotissimo di S. Antonio, però. “Si nun era ppì jddu”, ripeteva, “ ’stu cazzu che me la scapulavu vivu ra la guerra!”. Il 13 giugno, alla processione, era il primo dietro la statua del Santo con il Bambino paffutello su un braccio e il giglio bianco nella mano. Nelle foto si sistemava sempre con la guancia buona all’obbiettivo.
Capitolo IV
TEMPI DI LUPI
Il fischio del treno lacera la storia, mi scuote di colpo dallo stato di trance. Peccato. Da quanto tempo non rivedevo così nitide, le facce giovani di mio padre e mia madre? Riuscirò di nuovo a cancellare il mondo fuori dal finestrino, a riannodare il filo, recuperare le visioni tranciate da questo sibilo intruso di presente? Non voglio che il film che pure mi strizza l’anima si interrompa. Sento come una fitta, che se non lo fermo adesso quel tempo non mi parlerà di nuovo. Lo trattengo coi denti. Gli fornisco gli appigli delle ultime immagini che ancora vagano erratiche, nuvole pazze nel torpore della mia testa…mio padre, l’eroe suo malgrado di Vittorio Veneto…i calcoli di mia madre…il picchio mitragliatore di faggi…gli scarponi di mio fratello…
Indietro, sempre più indietro, prima sfocato, poi sempre più chiaro il tempo risponde…
“…dopo un paio di ore siamo al primo casolare giusto per gustare la ricotta calda appena preparata. I recipienti sono luridi, ma quel morbido impasto dal forte sapore di siero cancella la stanchezza. Non faccio lo schizzinoso. Mio padre ricambia con sigarette o tabacco. Dopo mesi di astinenza a fumare foglie secche di granturco, è un regalo prezioso. Ci prepariamo a ripartire con l’omaggio di una prima forma di pecorino nel tascapane, senza riscuotere niente. “Chist’annu nun am’ accisu puorci”. Quest’anno non abbiamo ammazzato maiali, dice, “mal’annata ppi li puorci!” e mio padre annuisce comprensivo. Fissa, però, con noncuranza, senza muoversi, le lunghe pertiche da cui pendono prosciutti, salsicce, salami, prova inoppugnabile del porchicidio. Non mi fotti, sembra dire, in silenzio. Così, per soddisfazione personale. Tanto per chiarire. Bonariamente. Una manfrina rusticana dall’esito scontato. In fondo. Un capicollo o una salsiccia arriva a far compagnia al formaggio nel tascapane. Adesso possiamo riprendere il cammino.
Tempi duri, si sopravviveva così. E fare il daziere garantiva qualche vantaggio. Era il 1954. O il 1955, forse.
Quando, verso le sei eravamo all’altopiano di Vesalo, sul valico, fra i faggi maestosi scavati come caverne, il brutto era alle spalle. Adesso cominciava il lungo saliscendi, casolare per casolare. Sempre lo stesso rituale, abbracci amichevoli coi pastori, più insistiti con le pastorelle, anche se puzzavano di fatica e selvatico. Il tascapane che man mano si svuotava di sigari e tabacco e si riempiva di formaggio, ricotte salate, salumi. Niente dazio. Povera gente e generosa. Ruvidi e primitivi. Una comunità di Amish, isolata dal mondo, sembravano...
A sera, dopo una ventina di chilometri ci fermavamo per dormire a Pruno, un grumo di casolari attorno alla desolata scuola elementare. Sempre alla stesso posto. Amici. Le donne di casa lasciavano i lavori nei campi e cominciavano subito a trafficare per la cena, ravioli ripieni di ricotta o fusilli, come da tradizione. Nei sei o sette anni che ho accompagnato mio padre non mi è mai riuscito di mangiare un primo piatto da loro. Prima di metterci a tavola papà, con gesto grave e solenne, impugnava la sua macchinetta col Flit e cominciava ad insufflare con metodo il soffitto nero di mosche. Quando le zuppiere fragranti di quel bendidio venivano servite, le maledette cadevano a pioggia condendo le pietanze di una superficie scura e agonizzante. La cosa non disturbava i nostri bravi ospiti che si servivano a festa. Ravioli, mosche e DDT. Dicloro-difenil-tricloroetano, non so se mi spiego. “Mangiate, mangiate”, supplicavano. Mio padre accampava la sua solita ulcera io improvvisi mal di pancia. Ogni volta così, l’impunito. I malanni passavano di colpo quando venivano tagliati salami e pecorini. Ma schivare quella pioggia schifosa era una impresa.
Infine, spente le lampade ad acetilene, a cuccia in un tugurio accanto alla stalla degli animali. Un tavolaccio su due alti cavalletti di ferro con un saccone ripieno di foglie di granturco, pidocchi, cimici e altri scarafaggi mostruosi era il letto. I tafani facevano banchetto delle mie carni adolescenti, già pustolose di loro. Il puzzo grasso di letame saturava l’aria. La mattina i pomfi sulla pelle erano colline sanguinolente.
Mio padre cominciava subito a russare rombi di tuono. Io non chiudevo occhio per lo schifo e la paura. Lontano ululavano i lupi. Li sentivo man mano avvicinarsi agli ovili, quasi alla porta cadente della stamberga. Il ringhiare dei grossi cani da guardia, la gola protetta da robusti collari di ferro dentati, accompagnava la mia notte bianca. Per il resto della mia vita non ho più vissuto un buio più assoluto, impenetrabile, una paura così pastosa.
( da La valigia del doganiere, Alphabeta, Bolzano, 2013)
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S. ELENA E LA SUA GROTTA.
Qui si narra di una vergine romitella di nome Heliena che, abbandonato il suo paese Laurino, si dedicò in solitudine alla preghiera in questa spelonca al di sopra di Pruno. Secondo la tradizione era il VI secolo, secondo la storia forse l'VIII o il IX. Più giù c'era un piccolo Cenobio basiliano, costretto poi dalle incursioni saracene, a spostarsi a Rofrano, i cui monaci talvolta le portavano da mangiare in cambio di qualche rammendo. Dopo la morte di Heliena, subito nominata come S. Elena, la grotta fu trasformata in cappella. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° |
LA GROTTA DEI "FRAULUSI"
Un centinaio di metri al di sotto della grotta di S. Elena si apre lo stretto budello della Grotta di Fraulusi (barbagianni). Su indicazione dei pastori prunesi che segnalavano strane "cocce di morti" incorporate nella roccia, furono effettuati sopralluoghi scoprendo così uno dei più importanti siti archeologici dell'Età del Bronzo. Qui l'uomo preistorico seppelliva i suoi morti. Alcuni reperti calcificati, teschi umani o animali e utensili, sono esposti nel nuovo Museo Archeologico di S. Antonio |
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ANCEL KEYS E LA DIETA MEDITERRANEA: IL PARADOSSO CILENTANO*
Nel 1962 Ancel Keis, biologo che era stato a seguito delle truppe alleate nella seconda guerra mondiale, si stabilì a Pioppi per studiare come mai fra la gente mediterranea ci si ammalava molto poco di malattie cardiovascolari e si campava spesso e in salute oltre il secolo. Ci rimase 28 anni e scoprì cha la causa della longevità doveva principalmente attribuirsi al cibo che nel territorio da lui preso in esame, la gente mangiava. Insomma pasta, pane, legumi, pesce, frutta, verdure, formaggi locali, poca carne, il tutto condito da ottimo olio di oliva (il paradosso sta qui essendo, comunque, l'olio un grasso per quanto insaturo) e innaffiato perché no? da un paio di bicchieri di rosso, erano il segreto di Pulcinella per vivere bene e morire il più tardi possibile. Era nata la Dieta Mediterranea che in breve conquisterà il mondo fino ad essere dichiarata dall'Unesco Patrimonio Immateriale dell'Umanità. Ancel restò a Pioppi con la sua equipe 28 anni e morì nel 2004 a Minneapolis a 101 anni. La sua vita e la sua morte furono, per così dire, la prova che la scoperta da lui fatta era ampiamente dimostrata. |
* Paradosso cilentano è utilizzato in analogia a paradosso francese. In Francia però il fenomeno della bassa incidenza di malattie cardiovascolari, malgrado una alimentazione ricca di grassi saturi, è attribuito all'uso regolare del vino rosso ricco di polifenoli, specie resveratrolo.
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Rosa Durante e Assunta Sarnicola ultracentenarie e testimonial della Dieta Mediterranea |
Le arzille "cummari" di Laurino, regno di centenari o meglio di centenarie
Sembrerebbe chiamarsi Foxo3A il gene della longevità. E' stato riscontrato nei centenari giapponesi, sardi e anche cilentani. Gli stessi scienziati, però, affermano che solo il 30% della longevità dipende dai geni mentre il resto è affidato allo stile di vita e all'alimentazione. Nel Cilento esiste un'alta percentuale di centenari che avvalora questa ipotesi e gli studi di Keys. Per intanto è in corso una indagine a tappeto a Gioi, Laurino, Campora ecc. per scoprire qual è il segreto di tanti vegliardi e soprattutto di tante arzille e lucidissime signorine che si ricordano ancora "'u nnammuratu". E' proprio vero: 'u prim'ammore nun si scorda mai! |
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LI FUNTANEDDE
Sullo storico tracciato che dal mare portava al Vallo di Diano, Laurino costituiva uno snodo importante. Il paese, fin dai Longobardi, era una sentinella che presidiava la sicurezza dei viaggi e i suoi ponti garantivano un guado tranquillo di fiumi e torrenti. Ai piedi del paese i singoli viandanti e le carovane che portavano il sale all'interno e il grano al mare avevano un comodo punto di sosta: S. Rocco e li Funtanedde. Sul sito sono stati rinvenuti saltuariamente reperti preistorici della Civiltà appenninica. Dalle Fontanelle saliva una delle vie selciate al paese e continuava in riva destra del vaddone, il carraro che raggiungeva S. Antonio per proseguire verso Piaggine e la Sella di Corticato. Questo sistema viario durò fino alla fine dell '800 quando fu costruita la strada rotabile con la terribile serie di tornanti tracciati apposta, si dice, per spezzettare il fondo dell'allora proprietario. |
La miracolosa acqua di S. Rocco
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Intorno al '500 o '600 fu rimodernato l'abbeveratoio per gli animali dotandolo di una grande vasca in pietra e due artistici mascheroni con cannule per i viandanti. La copiosa sorgente, peraltro, era indispensabile per alimentare attraverso il canale, in riva destra, l'antica "cunzaria" , la conceria di S. Rocco, Soprattutto d'estate, infatti, il torrente era in secca e le puzzolenti vasche di concia richiedevano acqua in abbondanza..
Alla sorgente si andava anche a rifornirsi di acqua pura fino agli anni '60 del 1900. Si pensò anche di imbottigliarla come minerale fino a quando le analisi non scoprirono che la decantata acqua buona per stomaco e reni, era altamente inquinata probabilmente da infiltrazioni dei sovrastanti scarichi fognari. La miracolosa acqua delle Fontanelle di S. Rocco passò così nel dimenticatoio. |
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CAUZUNI E PIZZE CHIENE, TAROZZULE E ZERRE
La Pasqua laurinese B. Durante Il ricco rituale pasquale, nella tradizione paesana, cominciava già la domenica delle palme. I bambini confezionavano le loro parme da portare alla benedizione in chiesa. In realtà si trattava di rametti di ulivo rivestiti da carta stagnola da cui pendevano caramelle e ovetti pasquali di cioccolata. Chi non poteva si arrangiava con i fichi secchi. Come si sa, tutto il periodo pasquale è attraversato dalla simbologia dell’uovo che rappresenta l’inizio della vita e perciò anche la resurrezione. Ma a noi bambini questi complicati significati non interessavano niente e manco li conoscevamo. A noi importava che la benedizione finisse subito e che, in quattro e quattro otto, potessimo papparci gli ovetti. Le uova vere, poi, ricomparivano nel corso della settimana di passione, sui vicciddi di pasta scaurata e poi infornati. Le nostre mamme si sbizzarrivano nelle forme più strane, dal semplice viccio a cerchio, simbolo arcaico del ciclo vitale, a quelli lisci, a treccia, a cestino, a pesce, simbolo di Cristo, e così via. Quelli a forma di neonato con l’uovo sulla pancia erano destinati alle bambine che li avvolgevano in piccole fasce per giocare alle mamme, finché non si rompevano. I vicci, poi, venivano portati in chiesa per essere benedetti. Ma tutta la settimana presso i forni di casa, sui suppigni, era un cantiere continuo, una ubriacatura di profumi. Già il martedì si partiva con i cauzuni, invenzione culinaria straordinaria che utilizzava le primizie di Jete, biete selvatiche, pezzetti di alici salate e passuli. Il gusto dolce-amaro, probabile eredità araba veicolata dalla Sicilia, è , per quanto mi riguarda, quanto di meglio la cucina mediterranea abbia escogitato. Il mercoledì, massimo giovedì, era il turno di un altro miracolo cilentano, sua maestà ‘a pizza chiena, soffice impasto di formaggio fresco e stagionato, caprino e pecorino, dadini di soppressata, eventualmente riso, avvolto in pasta sfoglia e cotto al forno. Si chiudeva il sabato con la pizza di pan di Spagna, ripiena di crema pasticciera bianca e al cioccolato, glassata di naspru e cumbittieddi. Il tutto, in quantità industriale, veniva riposto sui tavoli e religiosamente coperto da un panno per essere consumato il giorno di Pasqua. A casa mia cauzuni e pizze chiene, per la verità, a Pasqua non ci arrivavano mai. 'U SABBURCU nella cripta di S. Maria
(foto Arioppa 1910) |
Ma noi bambini e ragazzi, eravamo impegnati su più fronti. C’era da partecipare giovedì al rito del lavaggio dei piedi, secondo il Vangelo di Giovanni, celebrato da Gesù stesso durante l’Ultima Cena, nella ricorrenza della Pasqua ebraica. Il vertice del pathos, però, si raggiungeva soprattutto il venerdì con la processione della passione e la visita ai sabburchi. La processione iniziava ancora col buio, alle sei di mattina, ognuno con la sua candela. Il corpo di Cristo e la statua della Madonna Addolorata venivano prelevati dalla cripta di S. Maria dai membri della congrega del Rosario in saio e cappuccio bianco e accompagnati dalle marce funebri della banda. Intanto, in segno di lutto, i crocefissi e le statue della Madonna erano stati coperti e le campane erano state legate.
Il pomeriggio, fino a notte tardi, si faceva il giro dei sabburchi adornati artisticamente dai vasi di germogli di grano fatti crescere al buio dalle donne per mantenerli bianchi. Inutile dire che fra le parrocchie di S. Maria, Ognissanti e S. Biagio si faceva a gara per il sabburco più bello. Non è da credere, però, che per noi ragazzi e ragazze fosse tutta mestizia. Approfittando dell’affollamento e della confusione, infatti, per i più grandicelli e ‘spierti era facile imboscarsi per i vicoli a praticare ben altre passioni. Beata gioventù! Ma la tradizione più attesa era quella di zerre e tarozzule. Essendo la campane mute, mezzogiorno, ventun’ore e tutte le funzioni in chiesa dove fosse richiesto il campanello, venivano annunciate con le raganelle di legno costruite da noi, e quello strumento diabolico costituito da una tavola con due tuzzulaturi per lato che agitata in senso rotatorio, produceva un fracasso infernale. Le migliori tarozzule, le più rumorose cioè, erano quelle di S. Jase. Turbe di ragazzini e ragazzine percorrevano strade e vicoli al grido mò sona miezzujuornu a Santu Jase! ( o a S. Maria o a Tutti li Santi). E giù zerre e tarozzule, terrorizzato starnazzare di galline, abbaiare di cani, ragliare di asini. Un terremoto. Lo strepito durava fino alla domenica mattina quando si slegavano le campane a gloria e tornava la pace. Era arrivata la festa. Già prima della solenne messa cantata, i vicoli profumavano del ragù per fusiddi, lahane e rafaiuoli e ‘ncoppa ‘a hratiglia sfrigolava il capretto a la vrasa esaltato dall’intingolo di olio, aceto e mazzetto di arehana. Profumi e sapori antichi, superbi nella loro semplicità. L’indomani era già pasquarella |
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BUONA PASQUA! Lu vicciddu Mino Schiavo Il vicciu o vicciddu è legato stranamente al tacchino. Col termine viccio/vicchiu/vicciu/viccë, infatti, fu chiamato il buffo animale, importato nel nostro continente dal Messico solo dopo il 1522, in varie zone d’Italia. Cosa c’entra il rumoroso e litigioso gallinaccio? In effetti quell’antico pane dei poveri era il pane di vecce (vicciu/vizza/vézzë)[1], quell’erba infestante che cresce tra il frumento, detta anche cicerchione, la cicerchia selvatica, o anche erba galletta rossa. Presenta semi non più piccoli di un acino di pepe (cuculiddi di frumento, li chiamano in Sicilia, cioè coccoline), che erano dati in pasto alle galline e, poi, ai tacchini, con qualche seme di hranuríniu (il “granone”, il “granturco”[2]) … che ricordasse loro la presunta alimentazione del paese di provenienza.[3]
‘N ‘tiemp ‘’e carestia pane de veccia: un proverbio abruzzese. Era il pane dei contadini poveri e poverissimi, il pane del popolo, di colore giallastro pallido, ruvido al tatto, con odore di legume molto marcato. Spesso era impastato anche con la terra. Pensate che miseria doveva esserci. D’altro canto il pane dei ricchi, di soffice farina.
Contadini, galline e tacchini mangiavano la stessa cosa. |
Voi immaginate l’adduriniu, il gallo d’India, quando lo videro la prima volta a Laurino? Secondo me la scena non dovette essere molto dissimile da quella della visione di Cristoforo Colombo da parte degli indigeni. Immagino guardassero tutti con sospetto quell’animalaccio: i signorotti, che conoscevano anche un po’ di spagnolo/portoghese, pontificavano; il prete, preoccupato di quel totem, sollecitato, forse, dal popolino, disse anche una messa. Maronna! ‘Nu haddu r’Innia! Insomma un po’ come quando mio nonno sentì dire che la vammana (la levatrice) era chiamata ostrica, a suo dire, e lo riferì solennemente a mia nonna : Pascalì’, la vammana mo’ se chiama ostrica!
Forse da allora la sagra agreste, in Puglia, introdusse la presenza di sua maestà il tacchino, al quale ritennero che dovesse essere dato rigorosamente in pasto hranuriniu, per chi se lo potesse permettere. Altrimenti che Adduriniu sarebbe stato? Le parole, però, sono più forti delle umane vicende. Lu vicciu/le vecce si presero la loro bella rivincita. Scesero dal Molise, invasero l’Irpinia e la Campania, compreso il Cilento, fino a spingersi in Sicilia. La nostra ciambella di pane rimase lu vicciu/vicciddu, una volta, come detto, fatta con le vecce. Mi piace immaginarli riuniti in assemblea i poveri e fieri contadini, per stabilire come chiamare quell’animalaccio. Lo potevano chiamare, fin da subito, hadduriniu, come lo chiamavano i padroni? Non osarono o, più semplicemente, non sapevano chiamarlo. E, quindi, per un po’,…non lo chiamarono o meglio, quando dovevano dargli da mangiare le vecce, dicevano, orgogliosamente, come per primi gli abruzzesi, vicce, vicce, vicce e titì, titì, titì, amorevolmente, alle galline. Il tacchino, insomma, rimase, per un po’,…figlio di madre straniera! Nacque, così, forse, l’identificazione del termine vicciu con il tacchino. Fu, però, salvaguardata dall’antica tradizione, come cosa propria del povero mondo contadino, dura eredità di stenti e di fame. Poi si trasformò nel dolce pasquale, elaborato in varie figure, come questo viccillo per i più piccoli: un galletto, prima forma dell’antica sagra agreste. BUONA PASQUA! [1] “veccia”, dal latino vicia; greco bikía; [2] cosìddetto, per un errore di traduzione, “grano per tacchini”, in quanto il loro collo somigliava ad un turbante turco; [3] Cristoforo Colombo, come è noto, pensò di essere giunto nelle Indie; |