La torre cosiddetta "normanna"
INDICE
-Elena di Laurino: Una santa fra storia e leggenda di B. Durante -La storia di S. Elena di Mino Schiavo -Presentazione -Parte I: Le vicende delle reliquie. Un culto antichissimo -Parte II: Vicende del sacro corpo -Parte III: Iconografia -Parte IV: Sant'Elena e Sante Elene -Parte V: Conclusioni - Appendice - Il Castello di Laurino di Mino Schiavo - Origini di Laurino di Bruno Durante Brooklyn -Parigi via Laurino di B. Durante - Il mito della stamperia di Laurino di Mino Schiavo - Piazza Agostino Magliani di M. Schiavo ________________________________
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- C'era una volta in America...mia cara moglie di B. Durante
-C'era una volta in America di Ennio Morricone, audio -C'era una volta in America di Ennio Morricone, audio II - Parteno 'e bastimenti: storie di emigrazione di M. Schiavo - La prima emigrazione di B. Durante - La seconda emigrazione - Lu Nordeste, poesia di B. Durante - Santa Lucia luntana, audio-video, Massimo Ranieri - Santa Lucia luntana, audio-video, Beniamino Gigli - Lacreme napulitane, audio video di Mina - Le guerre di don Scipione di B. Durante - Un sindaco garibaldino: Mariano Gaudiani - Camicie rosse a Laurino di B. Durante - Ferdinando IV, re di Napoli: penza a mammeta, guaglio' - Angelo Pesce e la cultura napoletana... di Mino Schiavo - Laurino: balle e storia |
ELENA DI LAURINO: Una santa fra storia e leggenda.
La storia di Laurino è strettamente intrecciata a quella della sua santa romitella. Si può anzi dire che quando la vicenda del paese si affaccia alla storia quella di Elena ha già qualche secolo alle spalle. Almeno nella dimensione mitologica creata posteriormente. Il fatto è che quando si parla di santi del VI secolo la storia latita e si mischia alla leggenda e ai miti. Così è avvenuto anche per la figura di S. Elena che, su un culto indubbio e secolare, ha visto stratificarsi ricerche approssimative, invenzioni, falsificazioni e quant'altro. E' avvenuto, persino, che nella cultura popolare la narrazione teatrale della vita di S. Elena finisse per prevalere sui pochi dati reali. La vera S. Elena è diventata così quella drammatizzata da Nicolò Politi nella "Fortezza trionfante" e non quella emergente dai pochi elementi storici. Due esempi per tutti: 1) Nel VI secolo non c'era a Pruno alcun monastero benedettino, dove, come si narra, S. Elena rattoppava le cocolle ai frati. E neppure c'era un cenobio di basiliani, arrivati nel Cilento solo nell'VIII/IX sec. a seguito della lotta iconoclastica avviata dall'imperatore d'oriente Leone Isaurico (726) e della conquista araba della Sicilia (827/902). Né Elena, vissuta che sia nel VI o VIII/IX sec., poteva naturalmente avere cognome Consalvo, sia perché il cognome non era ancora in uso sia perché i Consalvo erano una nobile famiglia spagnola vissuta dal 1600 in poi. Fesserie che hanno corso ancora oggi. Comunque sia, la fredda storia non ha per niente scalfito la devozione per la fragile giovinetta romita profondamente amata dai laurinesi.
Tocca a Mino Schiavo, allora, che a S. Elena ha dedicato anni di appassionata ricerca, restituirci col rigore di storico che lo contraddistingue, il quadro quanto più possibile oggettivo di Heliena. Glie ne siamo grati.
B. Durante
La storia di Laurino è strettamente intrecciata a quella della sua santa romitella. Si può anzi dire che quando la vicenda del paese si affaccia alla storia quella di Elena ha già qualche secolo alle spalle. Almeno nella dimensione mitologica creata posteriormente. Il fatto è che quando si parla di santi del VI secolo la storia latita e si mischia alla leggenda e ai miti. Così è avvenuto anche per la figura di S. Elena che, su un culto indubbio e secolare, ha visto stratificarsi ricerche approssimative, invenzioni, falsificazioni e quant'altro. E' avvenuto, persino, che nella cultura popolare la narrazione teatrale della vita di S. Elena finisse per prevalere sui pochi dati reali. La vera S. Elena è diventata così quella drammatizzata da Nicolò Politi nella "Fortezza trionfante" e non quella emergente dai pochi elementi storici. Due esempi per tutti: 1) Nel VI secolo non c'era a Pruno alcun monastero benedettino, dove, come si narra, S. Elena rattoppava le cocolle ai frati. E neppure c'era un cenobio di basiliani, arrivati nel Cilento solo nell'VIII/IX sec. a seguito della lotta iconoclastica avviata dall'imperatore d'oriente Leone Isaurico (726) e della conquista araba della Sicilia (827/902). Né Elena, vissuta che sia nel VI o VIII/IX sec., poteva naturalmente avere cognome Consalvo, sia perché il cognome non era ancora in uso sia perché i Consalvo erano una nobile famiglia spagnola vissuta dal 1600 in poi. Fesserie che hanno corso ancora oggi. Comunque sia, la fredda storia non ha per niente scalfito la devozione per la fragile giovinetta romita profondamente amata dai laurinesi.
Tocca a Mino Schiavo, allora, che a S. Elena ha dedicato anni di appassionata ricerca, restituirci col rigore di storico che lo contraddistingue, il quadro quanto più possibile oggettivo di Heliena. Glie ne siamo grati.
B. Durante
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PRESENTAZIONE
Mino Schiavo
La vita e le vicende terrene di S.Elena vergine anacoreta di Laurino s’intersecano tra storia e leggenda. L’una si sovrappone all’altra e viceversa. La storia documentata si presenta, per così dire, “innocente” nella sua oggettività; la leggenda, proprio perché tale, è costruzione umana, quindi arbitraria.
L’analisi delle vicende, peraltro contraddittorie, sottoposte ad un rigoroso metodo storico, fanno emergere una realtà sociale ed umana di stenti, di privazioni e di violenze, esaltando bontà e purezza di un’umile giovane contadina vissuta, presumibilmente, tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo.
Nel quadro delle false costruzioni di vite di santi, soprattutto nel Seicento, che tale sventurata contadinella sia effettivamente vissuta è del tutto verosimile. Ce lo indica il suo primo nome: Heliena, certamente di derivazione greca, attestato probabilmente in un’icona degli inizi del XII secolo, sicuramente nelle notizie della vita, tratte da un manoscritto secentesco, e nella iscrizione del riquadro del polittico di Cristoforo Faffeo della fine del XV secolo.
Le notizie sulla sua vita in latino si diffondono nell’area ecclesiastica. Il laurinese Nicolò Politi, che sarà stimatissimo Ministro Generale dell’Ordine Francescano, intorno alla metà del XVIII secolo, ne drammatizza, con toni semplici e, alle volte, anche scherzosi, la breve vita, affinché il ricordo rimanesse impresso nel popolo, attingendo al repertorio linguistico gergale, teatrale e poetico, proprio del seicento napoletano. È la cosiddetta “Opera ri Santa Lena”, cioè “La fortezza trionfante”, apparsa, originariamente, con il poco comprensibile titolo di “La penitente ( o La penitenza) trionfante” ( di che avrebbe dovuto pentirsi?).
È del tutto comprensibile, invece, la meritoria opera del grande francescano, in un quadro sociale e religioso preoccupante, nel quale con credibilità e largo seguito, si inseriscono ancora janare e mahari (fattucchiere e “maghi”), spargendo copiosamente i semi marci di eresie d’ogni genere. Pasticciati, invece, e, alle volte, scorretti gli interventi della pessima storiografia settecentesca, ottocentesca e novecentesca, che ne romanzano la vita, e le oscure, ma certamente contradditorie e poco credibili, vicende delle reliquie. Sulla base dei pochi elementi storiografici a disposizione, sottoposti a severa analisi, l’intento di questa pubblicazione è quello di restituire dignità e fisionomia alla umile contadinella laurinese, onorandone la memoria, Santa, da più di mille anni, per volontà popolare, di un paese fieramente devoto.
LA STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte I
Elena Santa, le vicende delle reliquie, un culto antichissimo
La foto sopra è del 1939. S. Elena riposa nella bella teca di cristallo. Al di sotto dell’immagine le presunte reliquie. A quell’epoca la Collegiata di S. Maria Maggiore, la nostra chiesa Madre, era considerata il Santuario di S. Elena, da quando l’abate, Monsignor Luigi Garrasi, ne trasferì il corpo, l’8 ottobre del 1882, dalla cattedrale di Ariano Irpino con il beneplacito del vescovo d. Francesco Trotta.
Centinaia e centinaia i fedeli che venivano dai paesi limitrofi e dalla provincia, dalla Lucania, dalla Calabria. Molti passavano la notte tra gli stalli del magnifico ed inquietante coro ligneo. Mi giunge qualche sommessa preoccupata voce di un eventuale “ripristino” del “Santuario”.
Al pensiero che il sarcofago dei sacri resti è rimasto per anni abbandonato nella cripta fra oggetti di modernariato accatastati alla rinfusa e nella sporcizia, non mi sembra lodevole l’iniziativa.
Comunque, ci andai, ad Ariano, qualche decennio fa. Fui accolto magnificamente dal Vicario del Vescovo, che mi confermò che le reliquie erano in un’una di legno nero con tre cristalli con altri ornamenti. Mi disse che nella Tesoreria esisteva anche una caraffina di cristallo con polvere delle reliquie di S. Ottone, S. Blasio e S. Elena. Mi piacque, però, verificarlo su una pubblicazione di un eccellente storico locale, che riferisce che l’Inventario delle reliquie registra un busto d’argento ed il cranio di S. Elzeario Sabrano e, a parte, un dito, due Santissime Spine della Corona di Gesù, reliquie di S. Oto, del protomatire S. Stefano, di S. Giacomo Apostolo, di S. Lorenzo martire, di S. Achilleo e di S. Nereo, anch’essi martiri, di S. Crispino, S. Leonardo, S. Eunomio, S. Giovanni Battista (!?), S. Paolo Apostolo, S. Andrea, S. Leonzio, S. Telesforo, S. Ponziano, S. Giuda, S. Tommaso Apostolo, S. Liborio, S. Barbato vescovo di Benevento, S. Policarpo, S. Liso, S. Eutropio, S. Apio e diversi altri.
Il Vicario, una bella persona, volle donarmi uno scritto inedito del parroco della Chiesa del Carmine a New York, d. Domenico Pistella, che si conservava presso l’archivio diocesano, dal quale appresi che nel 1884 i Laurinesi emigrati vollero insediare la loro patrona e fecero riprodurre una replica dell’urna di cristallo e della statua, al naturale, come si venera nel paese lontano. A loro conforto ottennero una reliquia insigne, che era solennemente esposta nelle due date anniversarie di maggio e ottobre, rispettivamente della morte e della traslazione delle reliquie.
Appurai , dal monumentale lavoro di un altro benemerito storico, che agli inizi del ‘600 fu aperta l’urna sotto l’altare maggiore e vidimata la vita di S. Ottone, che è stata dimostrata falsa.
Incominciai a nutrire dei sospetti, ma non mi meravigliai affatto. La storia delle reliquie è ben nota. Gli Angioini ne erano molto tifosi.
Pensai, subdolamente, che la macchina mediatica si era mossa, commuovendomi, tuttavia, al pensiero della cristallina e giusta devozione tra tanti presumibili stenti.
Le reliquie non hanno pace e vivono di storie lontane. Già alla metà del ‘600 un patrizio laurinese, d. Ludovico Santoro, alfiere del cavalleggeri delle milizie del conte di Casalduni, nel beneventano, trovandosi ad operare non distante da Aversa, riesce ad ottenere dal capitolo della cattedrale, una reliquia della nostra Santa, chiedendo al Vescovo Tommaso Carafa di compilare tutti gli atti necessari affinché fosse esposta alla pubblica venerazione. Il potente Vescovo affidò la pratica all’abate d. Giulio Santoro, fratello di Ludovico. Questa, tuttavia, è un’altra storia che s’inserisce in un quadro gremito di janare, di mahari, di fattucchiere e di un clero non sufficientemente dedito, per così dire, ai propri doveri.
Una reliquia insigne (l’osso femorale), invece, giunse a Laurino l’anno 1713, donata al patrizio e canonico laurinese Rosario Riccio-Pepoli, all’epoca vicario generale della diocesi di Ariano, concelebrante la solenne consacrazione del magnifico duomo, quando fu ritrovato il corpo della Santa.
Qualche decennio prima della traslazione del sacro corpo da Ariano a Laurino, Mons. Siciliani, vescovo dell’epoca, aveva inoltrato da Capaccio, il 18 giugno 1867, una lunga relazione al Santo Padre affinché il culto della Santa fosse riconosciuto.
Gli elementi, però, erano storicamente piuttosto inconsistenti, se il cardinale Domenico Bartolini, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, nel 1878, terminò il suo lavoro, esponendone gli esiti in una pubblicazione nella quale era concesso ed approvato solo l’ufficio della messa in onore della santa vergine anacoreta, venerata dal popolo. Insomma il culto venne ufficialmente reso pubblico.
Il 9 gennaio del 1891 fu affidata ad un storico locale, Giustino Pecori, una perizia sui resti della santa rinvenuti nella grotta di Pruno, che, a detta dello stesso, in qualità di medico generico ed archeologo, dopo esatta e coscienziosa verifica, combaciavano perfettamente con gli altri provenienti da Ariano, tanto che non può cader dubbio nella identità di tali ossa sia per le dimensioni, che la forma, per l’età (!?) e nel colorito (!?).
A quei tempi l’esame del radiocarbonio 14 non era ancora stato inventato.
Già ad Ariano mi riuscì difficile comprendere il perché le ossa fossero state separate dalla polvere. E, poi, se la leggenda ci narra che, alla sua morte, a Pruno, il corpo fu trasportato nell’allora sede vescovile di Capaccio, quali resti potevano essere rimasti nel Sacro Speco?
Su questo mi fermo qui per pudore, riservando alle prossime puntate alcuni aspetti della vita e dell’immagine della Santa particolarmente interessanti. Mi piace, però, riproporre, in chiusura, quello che davvero penso di Elena Santa.
Sant’Elena e le giovenche
La plastica e calma forza delle giovenche lucane faceva da contrappunto all’esile e purissima figura della santa giovinetta. Seguiva uno stuolo di popolo composto, consapevole di essere parte di una storia lontana.
Elena, la pastorella povera e maltrattata, fiera nella decisione di spezzare catene antiche e di andare incontro indomita al suo destino di beatitudine. Un riscatto sugli umili stracci anche quelle magnifiche vesti trapunte. Una Regina, non più un’umile pastorella. Strideva il potente contrasto nel quadro. Perché? Somiglia tanto quella statua alla giovane Madonna custodita nella cripta di Santa Maria Maggiore simile alla Madonna di Scalea, in provincia di Cosenza, a sua volta simile alla Madonna lucana di Altamura, la vergine del Buoncammino, che ha assunto, nel tempo, i colori della tradizione della Chiesa latina, proiezioni della Odighitria, che proteggeva il cammino delle esuli popolazioni italo- greche che dagli estremi confini della Calabria superiore ricercavano terre da arare e luoghi di vita meno grama.
Bella la festa di Altamura, le stesse giovenche a trasportare su un carro la “loro” Madonna.
Tradizione antichissima anche questa, nata dalle viscere del mondo rurale e dalla lenta trasformazione culturale delle popolazioni longobarde.
I Longobardi: sacro era il carro trainato dai buoi sul quale si ergeva maestosa Nerthus, la dea madre della fertilità.
Stesso rito a Parabita, nel Salento bizantino, per la patrona Madonna dell’Agricoltura, Regina dei campi, ovvero Madonna della Cultura o, meglio, della Cutura, come la chiamano i più anziani, accompagnata dai compatroni San Sebastiano e S.Rocco. In effetti è la bizantina Madonna della Collura, cioè, in greco, del pane, più precisamente quella torta di pane a volte confezionata con uova sode disposte al centro o incastonate lungo i bordi, secondo i rituali di una saga campestre, l’antica festa del Laurio, che si celebrava presso le antiche laure basiliane, ed era chiamata la festa della Cutura. Una Madonna in tre: quella della Cutura, cioè del pane; la Panaghia Portaitissa, cioè la bizantina Madonna portinaia, guardiana dei campi, presente sul limitare delle laure; la Madonna della Cultura, cioè dell’Agricoltura.
Laura significa, propriamente, “cammino stretto”, quindi “corridoio”, “viottolo”, “via stretta”; successivamente assunse il significato di “monastero con celle separate”, “cenobio”. Metaforicamente indicava lo “stretto cammino”, il passaggio difficile ed impegnativo da una vita terrena di transizione alla vera vita celeste. Tu sei la via, la verità, la vita, così i Vangeli.
Il Laurion era il territorio sul quale insistevano le laure, in forma cenobitica o eremitica. La festa del Laurion era la festa propria di tale territorio, nella quale materia e spirito, lavoro materiale e religiosità si fondevano in un’unica gioiosa preghiera.
Una corona (koulloura), la cuddhura siciliana, coddura nel Salento, per la Madonna protettrice, guardiana, Regina dei campi, il dolce pasquale dei poveri: abbondanza, la farina; fertilità, le uova. Un trionfo…lu vicciddu. Sì, perché la cuddhura siciliana non è nient’altro che il nostro viccillo.
Mi piaceva assistere la nonna nella preparazione. L’ultimo atto, solenne e semplice nello stesso tempo, richiamava una religiosità profonda: due strisce di pasta a simboleggiare la croce, posta alle volte al centro, alle volte su una porzione di bordo libero. Mi toccava, poi, la fronte, con un gesto lieve, pudico, evitando di manifestare, esplicitamente, la correlazione. Poi ho capito.
C’era anche, però alla fine, la mia parte, con un solo uovo, incastonato in una delicata forma di colombina o anche di altri animaletti o di una bambolina. Un solo uovo. In alcune zone si rispetta ancora la tradizione: ad un uovo per i bambini, a due per i genitori, a tre per i nonni. Ora dovrei avere quella a tre uova. Ma chi me la fa? Di sicuro un parente caro laurinese.
Elena, dunque, l’Elène in pronunzia bizantina, anzi propriamente Elìni, la nostra santa vissuta, con molta probabilità, nel IX secolo, all’ombra dei monaci “basiliani”: bella, giovane, sorridente come le Madonne di S. Maria Maggiore e di Altamura; dolce come la Panaghia Portaitissa.
Eh, sì, proprio così: Elena, “piccola” Madonna dell’agricoltura, proiezione delle più grandi Madri e della più grande Elena, sicuramente una Madre Ella stessa per noi.
Pensate che bello sarebbe, nelle processioni di maggio e di agosto, vederle insieme. Elena davanti, dolcissima; la Madonna appena un po’ dietro, protettrice, guardiana, della piccola grande pastorella. Due regine, un solo cuore.
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STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte II
Vicende del sacro corpo
Inizi VI sec.
La tradizione colloca la nascita della santa a Laurino. In quest’epoca si sarebbe verificata l’ascesi nella grotta di Pruno, ove sarebbe morta nell’anno 530 oppure negli anni 534 o 536 o 537
Subito dopo la morte
Il corpo sarebbe stato traslato nella cattedrale di Paestum-Capaccio, sede vescovile della diocesi.
Epoca imprecisata
Sarebbe stato rapito dai franceschi, credendolo quello di S.Elena imperatrice e trasportato in Francia, ad Auxerre
1267
Margherita di Bourgogne , contessa di Auxerre, sposa Carlo I d’Angiò. Trasferendosi a Napoli, avrebbe condotto nella capitale del regno i sacri resti
1310
S. Elzeario de Sabran (1284~1287/1323~1325), amico intimo di Carlo II ed istitutore di Roberto I d’Angiò, suo figlio, avuto in dono il corpo, lo avrebbe trasportato nella cattedrale di Ariano Irpino, suo feudo, in provincia di Avellino
6/5/1654
E’ la data di un decreto di ricognizione ed approvazione di una reliquia, emesso dal canonico laurinese D. Giulio Santoro, quale delegato di Mons. Tommaso Carafa, potente vescovo di Capaccio-Paestum dal 1639 al 1664. La reliquia era stata
donata dal capitolo della cattedrale di Aversa al patrizio don Ludovico Santoro, fratello di d. Giulio.
1714
In occasione della consacrazione della cattedrale di Ariano Irpino furono rinvenute le reliquie della santa(70 ossa). Una reliquia insigne (osso femorale) fu donata, forse nel 1713, dal vescovo Giacinto della Calce(Napoli,1649/Ariano, 1715) a Mons. Rosario Riccio Pepoli di Piaggine, protonotario apostolico e vicario generale della diocesi arianese.
1882
L’Abate della Chiesa collegiata di Santa Maria Maggiore di Laurino, d. Luigi Garrasi, ottiene dal vescovo di Ariano, d. Francesco Trotta, le reliquie e l’8 ottobre 1882 le trasporta a Laurino
NOTE
1) Carlo I d’Angiò, divenuto vedovo di Beatrice di Provenza, sposò nel 1267 Margherita di Bourgogne, contessa di Auxerre, su proposta del Vescovo di Auxerre Goury de Mello, che volle che le reliquie di S. Elena, che, pare, riposassero in Auxerre da qualche secolo, seguissero la giovane sposa nel viaggio verso Napoli.
2) Ricerche effettuate ad Auxerre non hanno dato frutto. L’Elena di Laurino non è conosciuta, né riportata in alcuno scritto.
3) Esiste, tuttavia, nella tradizione agiografica una S. Elena vergine di Auxerre, vissuta ai tempi di S. Amatore, vescovo di Auxerre (V/VI sec.), poco conosciuta se non dagli esperti d’agiografia, alla quale con molta probabilità la Nostra è stata accostata nel riferimento cronologico più alto.
4) I sacri resti dell’anacoreta laurinese, poi, sarebbero stati adeguatamente onorati nella cappella reale di Napoli, ma anche in questo caso non vi è alcun documento che lo attesti.
5) Per volere di Carlo II sarebbero passati successivamente ad Ariano, feudo di S. Elzeario de Sabran e di sua moglie Delfina di Grandeves.
6) Antico è il legame tra Ariano e Laurino, fin da quando il 26/2/1269 Carlo I concede la contea di Ariano e le terre di Montefusco, Padula, Laurino e Pangoli al francese Enrico di Valdemont, suo cugino.
7) Il culto delle reliquie ebbe particolare risonanza tra gli Angioini. Lo stesso Carlo I donò alla cattedrale di Ariano due spine della corona di Cristo. Suo fratello, S. Luigi IX, impegnato da quelle parti nelle prime due crociate, era riuscito a portarne diverse da Costantinopoli, dove si conservava la corona del Signore.
8) Carlo, nella sua discesa, sconfitti gli ultimi Svevi, trovò una situazione religiosa preoccupante per il diffondersi di sette eretiche di ogni genere. Rappresentò il braccio armato per il ripristino dell’ortodossia. Lo stesso S. Elzeario certamente ebbe un ruolo importante.
9) Ad Ariano non vi è ricordo nel popolo di una S. Elena né esistono chiese o cappelle a lei dedicate. La storiografia locale ci parla di una S. Elena Arianensis, cosa strana, in quanto per tutti i Santi Patroni di Ariano vi è un qualche elemento agiografico certo. In un caso si fa cenno alla tradizione laurinese, ma sulla scorta della testimonianza del laurinese abate Garrasi.
10) Le pagine del codice napoletano della sezione brancacciana della Biblioteca nazionale di Napoli, ove è trascritta la legenda della Santa, anche a giudizio degli esperti archivisti paleografi della sezione, potrebbero essere attribuiti al ‘600, forse anche tardo.
11) I riferimenti alle Cronache d’Auxerre, che gli autori locali dell’800 e del ‘900 della vita della Santa sostengono raccolte dal Cardinale Vittore Felice Bernardou, arcivescovo d’Auxerre al tempo di Mons. Giovan Battista Siciliani, vescovo di Vallo della Lucania (vedi parte I della “Vita”), sembrano destituite di ogni fondamento e sono facilmente confutabili alla luce dei più elementari criteri storiografici.
12) Destituito di ogni fondamento è anche l’attribuzione del cognome
“Consalvo” di derivazione spagnola.
Mino Schiavo
La vita e le vicende terrene di S.Elena vergine anacoreta di Laurino s’intersecano tra storia e leggenda. L’una si sovrappone all’altra e viceversa. La storia documentata si presenta, per così dire, “innocente” nella sua oggettività; la leggenda, proprio perché tale, è costruzione umana, quindi arbitraria.
L’analisi delle vicende, peraltro contraddittorie, sottoposte ad un rigoroso metodo storico, fanno emergere una realtà sociale ed umana di stenti, di privazioni e di violenze, esaltando bontà e purezza di un’umile giovane contadina vissuta, presumibilmente, tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo.
Nel quadro delle false costruzioni di vite di santi, soprattutto nel Seicento, che tale sventurata contadinella sia effettivamente vissuta è del tutto verosimile. Ce lo indica il suo primo nome: Heliena, certamente di derivazione greca, attestato probabilmente in un’icona degli inizi del XII secolo, sicuramente nelle notizie della vita, tratte da un manoscritto secentesco, e nella iscrizione del riquadro del polittico di Cristoforo Faffeo della fine del XV secolo.
Le notizie sulla sua vita in latino si diffondono nell’area ecclesiastica. Il laurinese Nicolò Politi, che sarà stimatissimo Ministro Generale dell’Ordine Francescano, intorno alla metà del XVIII secolo, ne drammatizza, con toni semplici e, alle volte, anche scherzosi, la breve vita, affinché il ricordo rimanesse impresso nel popolo, attingendo al repertorio linguistico gergale, teatrale e poetico, proprio del seicento napoletano. È la cosiddetta “Opera ri Santa Lena”, cioè “La fortezza trionfante”, apparsa, originariamente, con il poco comprensibile titolo di “La penitente ( o La penitenza) trionfante” ( di che avrebbe dovuto pentirsi?).
È del tutto comprensibile, invece, la meritoria opera del grande francescano, in un quadro sociale e religioso preoccupante, nel quale con credibilità e largo seguito, si inseriscono ancora janare e mahari (fattucchiere e “maghi”), spargendo copiosamente i semi marci di eresie d’ogni genere. Pasticciati, invece, e, alle volte, scorretti gli interventi della pessima storiografia settecentesca, ottocentesca e novecentesca, che ne romanzano la vita, e le oscure, ma certamente contradditorie e poco credibili, vicende delle reliquie. Sulla base dei pochi elementi storiografici a disposizione, sottoposti a severa analisi, l’intento di questa pubblicazione è quello di restituire dignità e fisionomia alla umile contadinella laurinese, onorandone la memoria, Santa, da più di mille anni, per volontà popolare, di un paese fieramente devoto.
LA STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte I
Elena Santa, le vicende delle reliquie, un culto antichissimo
La foto sopra è del 1939. S. Elena riposa nella bella teca di cristallo. Al di sotto dell’immagine le presunte reliquie. A quell’epoca la Collegiata di S. Maria Maggiore, la nostra chiesa Madre, era considerata il Santuario di S. Elena, da quando l’abate, Monsignor Luigi Garrasi, ne trasferì il corpo, l’8 ottobre del 1882, dalla cattedrale di Ariano Irpino con il beneplacito del vescovo d. Francesco Trotta.
Centinaia e centinaia i fedeli che venivano dai paesi limitrofi e dalla provincia, dalla Lucania, dalla Calabria. Molti passavano la notte tra gli stalli del magnifico ed inquietante coro ligneo. Mi giunge qualche sommessa preoccupata voce di un eventuale “ripristino” del “Santuario”.
Al pensiero che il sarcofago dei sacri resti è rimasto per anni abbandonato nella cripta fra oggetti di modernariato accatastati alla rinfusa e nella sporcizia, non mi sembra lodevole l’iniziativa.
Comunque, ci andai, ad Ariano, qualche decennio fa. Fui accolto magnificamente dal Vicario del Vescovo, che mi confermò che le reliquie erano in un’una di legno nero con tre cristalli con altri ornamenti. Mi disse che nella Tesoreria esisteva anche una caraffina di cristallo con polvere delle reliquie di S. Ottone, S. Blasio e S. Elena. Mi piacque, però, verificarlo su una pubblicazione di un eccellente storico locale, che riferisce che l’Inventario delle reliquie registra un busto d’argento ed il cranio di S. Elzeario Sabrano e, a parte, un dito, due Santissime Spine della Corona di Gesù, reliquie di S. Oto, del protomatire S. Stefano, di S. Giacomo Apostolo, di S. Lorenzo martire, di S. Achilleo e di S. Nereo, anch’essi martiri, di S. Crispino, S. Leonardo, S. Eunomio, S. Giovanni Battista (!?), S. Paolo Apostolo, S. Andrea, S. Leonzio, S. Telesforo, S. Ponziano, S. Giuda, S. Tommaso Apostolo, S. Liborio, S. Barbato vescovo di Benevento, S. Policarpo, S. Liso, S. Eutropio, S. Apio e diversi altri.
Il Vicario, una bella persona, volle donarmi uno scritto inedito del parroco della Chiesa del Carmine a New York, d. Domenico Pistella, che si conservava presso l’archivio diocesano, dal quale appresi che nel 1884 i Laurinesi emigrati vollero insediare la loro patrona e fecero riprodurre una replica dell’urna di cristallo e della statua, al naturale, come si venera nel paese lontano. A loro conforto ottennero una reliquia insigne, che era solennemente esposta nelle due date anniversarie di maggio e ottobre, rispettivamente della morte e della traslazione delle reliquie.
Appurai , dal monumentale lavoro di un altro benemerito storico, che agli inizi del ‘600 fu aperta l’urna sotto l’altare maggiore e vidimata la vita di S. Ottone, che è stata dimostrata falsa.
Incominciai a nutrire dei sospetti, ma non mi meravigliai affatto. La storia delle reliquie è ben nota. Gli Angioini ne erano molto tifosi.
Pensai, subdolamente, che la macchina mediatica si era mossa, commuovendomi, tuttavia, al pensiero della cristallina e giusta devozione tra tanti presumibili stenti.
Le reliquie non hanno pace e vivono di storie lontane. Già alla metà del ‘600 un patrizio laurinese, d. Ludovico Santoro, alfiere del cavalleggeri delle milizie del conte di Casalduni, nel beneventano, trovandosi ad operare non distante da Aversa, riesce ad ottenere dal capitolo della cattedrale, una reliquia della nostra Santa, chiedendo al Vescovo Tommaso Carafa di compilare tutti gli atti necessari affinché fosse esposta alla pubblica venerazione. Il potente Vescovo affidò la pratica all’abate d. Giulio Santoro, fratello di Ludovico. Questa, tuttavia, è un’altra storia che s’inserisce in un quadro gremito di janare, di mahari, di fattucchiere e di un clero non sufficientemente dedito, per così dire, ai propri doveri.
Una reliquia insigne (l’osso femorale), invece, giunse a Laurino l’anno 1713, donata al patrizio e canonico laurinese Rosario Riccio-Pepoli, all’epoca vicario generale della diocesi di Ariano, concelebrante la solenne consacrazione del magnifico duomo, quando fu ritrovato il corpo della Santa.
Qualche decennio prima della traslazione del sacro corpo da Ariano a Laurino, Mons. Siciliani, vescovo dell’epoca, aveva inoltrato da Capaccio, il 18 giugno 1867, una lunga relazione al Santo Padre affinché il culto della Santa fosse riconosciuto.
Gli elementi, però, erano storicamente piuttosto inconsistenti, se il cardinale Domenico Bartolini, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, nel 1878, terminò il suo lavoro, esponendone gli esiti in una pubblicazione nella quale era concesso ed approvato solo l’ufficio della messa in onore della santa vergine anacoreta, venerata dal popolo. Insomma il culto venne ufficialmente reso pubblico.
Il 9 gennaio del 1891 fu affidata ad un storico locale, Giustino Pecori, una perizia sui resti della santa rinvenuti nella grotta di Pruno, che, a detta dello stesso, in qualità di medico generico ed archeologo, dopo esatta e coscienziosa verifica, combaciavano perfettamente con gli altri provenienti da Ariano, tanto che non può cader dubbio nella identità di tali ossa sia per le dimensioni, che la forma, per l’età (!?) e nel colorito (!?).
A quei tempi l’esame del radiocarbonio 14 non era ancora stato inventato.
Già ad Ariano mi riuscì difficile comprendere il perché le ossa fossero state separate dalla polvere. E, poi, se la leggenda ci narra che, alla sua morte, a Pruno, il corpo fu trasportato nell’allora sede vescovile di Capaccio, quali resti potevano essere rimasti nel Sacro Speco?
Su questo mi fermo qui per pudore, riservando alle prossime puntate alcuni aspetti della vita e dell’immagine della Santa particolarmente interessanti. Mi piace, però, riproporre, in chiusura, quello che davvero penso di Elena Santa.
Sant’Elena e le giovenche
La plastica e calma forza delle giovenche lucane faceva da contrappunto all’esile e purissima figura della santa giovinetta. Seguiva uno stuolo di popolo composto, consapevole di essere parte di una storia lontana.
Elena, la pastorella povera e maltrattata, fiera nella decisione di spezzare catene antiche e di andare incontro indomita al suo destino di beatitudine. Un riscatto sugli umili stracci anche quelle magnifiche vesti trapunte. Una Regina, non più un’umile pastorella. Strideva il potente contrasto nel quadro. Perché? Somiglia tanto quella statua alla giovane Madonna custodita nella cripta di Santa Maria Maggiore simile alla Madonna di Scalea, in provincia di Cosenza, a sua volta simile alla Madonna lucana di Altamura, la vergine del Buoncammino, che ha assunto, nel tempo, i colori della tradizione della Chiesa latina, proiezioni della Odighitria, che proteggeva il cammino delle esuli popolazioni italo- greche che dagli estremi confini della Calabria superiore ricercavano terre da arare e luoghi di vita meno grama.
Bella la festa di Altamura, le stesse giovenche a trasportare su un carro la “loro” Madonna.
Tradizione antichissima anche questa, nata dalle viscere del mondo rurale e dalla lenta trasformazione culturale delle popolazioni longobarde.
I Longobardi: sacro era il carro trainato dai buoi sul quale si ergeva maestosa Nerthus, la dea madre della fertilità.
Stesso rito a Parabita, nel Salento bizantino, per la patrona Madonna dell’Agricoltura, Regina dei campi, ovvero Madonna della Cultura o, meglio, della Cutura, come la chiamano i più anziani, accompagnata dai compatroni San Sebastiano e S.Rocco. In effetti è la bizantina Madonna della Collura, cioè, in greco, del pane, più precisamente quella torta di pane a volte confezionata con uova sode disposte al centro o incastonate lungo i bordi, secondo i rituali di una saga campestre, l’antica festa del Laurio, che si celebrava presso le antiche laure basiliane, ed era chiamata la festa della Cutura. Una Madonna in tre: quella della Cutura, cioè del pane; la Panaghia Portaitissa, cioè la bizantina Madonna portinaia, guardiana dei campi, presente sul limitare delle laure; la Madonna della Cultura, cioè dell’Agricoltura.
Laura significa, propriamente, “cammino stretto”, quindi “corridoio”, “viottolo”, “via stretta”; successivamente assunse il significato di “monastero con celle separate”, “cenobio”. Metaforicamente indicava lo “stretto cammino”, il passaggio difficile ed impegnativo da una vita terrena di transizione alla vera vita celeste. Tu sei la via, la verità, la vita, così i Vangeli.
Il Laurion era il territorio sul quale insistevano le laure, in forma cenobitica o eremitica. La festa del Laurion era la festa propria di tale territorio, nella quale materia e spirito, lavoro materiale e religiosità si fondevano in un’unica gioiosa preghiera.
Una corona (koulloura), la cuddhura siciliana, coddura nel Salento, per la Madonna protettrice, guardiana, Regina dei campi, il dolce pasquale dei poveri: abbondanza, la farina; fertilità, le uova. Un trionfo…lu vicciddu. Sì, perché la cuddhura siciliana non è nient’altro che il nostro viccillo.
Mi piaceva assistere la nonna nella preparazione. L’ultimo atto, solenne e semplice nello stesso tempo, richiamava una religiosità profonda: due strisce di pasta a simboleggiare la croce, posta alle volte al centro, alle volte su una porzione di bordo libero. Mi toccava, poi, la fronte, con un gesto lieve, pudico, evitando di manifestare, esplicitamente, la correlazione. Poi ho capito.
C’era anche, però alla fine, la mia parte, con un solo uovo, incastonato in una delicata forma di colombina o anche di altri animaletti o di una bambolina. Un solo uovo. In alcune zone si rispetta ancora la tradizione: ad un uovo per i bambini, a due per i genitori, a tre per i nonni. Ora dovrei avere quella a tre uova. Ma chi me la fa? Di sicuro un parente caro laurinese.
Elena, dunque, l’Elène in pronunzia bizantina, anzi propriamente Elìni, la nostra santa vissuta, con molta probabilità, nel IX secolo, all’ombra dei monaci “basiliani”: bella, giovane, sorridente come le Madonne di S. Maria Maggiore e di Altamura; dolce come la Panaghia Portaitissa.
Eh, sì, proprio così: Elena, “piccola” Madonna dell’agricoltura, proiezione delle più grandi Madri e della più grande Elena, sicuramente una Madre Ella stessa per noi.
Pensate che bello sarebbe, nelle processioni di maggio e di agosto, vederle insieme. Elena davanti, dolcissima; la Madonna appena un po’ dietro, protettrice, guardiana, della piccola grande pastorella. Due regine, un solo cuore.
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STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte II
Vicende del sacro corpo
Inizi VI sec.
La tradizione colloca la nascita della santa a Laurino. In quest’epoca si sarebbe verificata l’ascesi nella grotta di Pruno, ove sarebbe morta nell’anno 530 oppure negli anni 534 o 536 o 537
Subito dopo la morte
Il corpo sarebbe stato traslato nella cattedrale di Paestum-Capaccio, sede vescovile della diocesi.
Epoca imprecisata
Sarebbe stato rapito dai franceschi, credendolo quello di S.Elena imperatrice e trasportato in Francia, ad Auxerre
1267
Margherita di Bourgogne , contessa di Auxerre, sposa Carlo I d’Angiò. Trasferendosi a Napoli, avrebbe condotto nella capitale del regno i sacri resti
1310
S. Elzeario de Sabran (1284~1287/1323~1325), amico intimo di Carlo II ed istitutore di Roberto I d’Angiò, suo figlio, avuto in dono il corpo, lo avrebbe trasportato nella cattedrale di Ariano Irpino, suo feudo, in provincia di Avellino
6/5/1654
E’ la data di un decreto di ricognizione ed approvazione di una reliquia, emesso dal canonico laurinese D. Giulio Santoro, quale delegato di Mons. Tommaso Carafa, potente vescovo di Capaccio-Paestum dal 1639 al 1664. La reliquia era stata
donata dal capitolo della cattedrale di Aversa al patrizio don Ludovico Santoro, fratello di d. Giulio.
1714
In occasione della consacrazione della cattedrale di Ariano Irpino furono rinvenute le reliquie della santa(70 ossa). Una reliquia insigne (osso femorale) fu donata, forse nel 1713, dal vescovo Giacinto della Calce(Napoli,1649/Ariano, 1715) a Mons. Rosario Riccio Pepoli di Piaggine, protonotario apostolico e vicario generale della diocesi arianese.
1882
L’Abate della Chiesa collegiata di Santa Maria Maggiore di Laurino, d. Luigi Garrasi, ottiene dal vescovo di Ariano, d. Francesco Trotta, le reliquie e l’8 ottobre 1882 le trasporta a Laurino
NOTE
1) Carlo I d’Angiò, divenuto vedovo di Beatrice di Provenza, sposò nel 1267 Margherita di Bourgogne, contessa di Auxerre, su proposta del Vescovo di Auxerre Goury de Mello, che volle che le reliquie di S. Elena, che, pare, riposassero in Auxerre da qualche secolo, seguissero la giovane sposa nel viaggio verso Napoli.
2) Ricerche effettuate ad Auxerre non hanno dato frutto. L’Elena di Laurino non è conosciuta, né riportata in alcuno scritto.
3) Esiste, tuttavia, nella tradizione agiografica una S. Elena vergine di Auxerre, vissuta ai tempi di S. Amatore, vescovo di Auxerre (V/VI sec.), poco conosciuta se non dagli esperti d’agiografia, alla quale con molta probabilità la Nostra è stata accostata nel riferimento cronologico più alto.
4) I sacri resti dell’anacoreta laurinese, poi, sarebbero stati adeguatamente onorati nella cappella reale di Napoli, ma anche in questo caso non vi è alcun documento che lo attesti.
5) Per volere di Carlo II sarebbero passati successivamente ad Ariano, feudo di S. Elzeario de Sabran e di sua moglie Delfina di Grandeves.
6) Antico è il legame tra Ariano e Laurino, fin da quando il 26/2/1269 Carlo I concede la contea di Ariano e le terre di Montefusco, Padula, Laurino e Pangoli al francese Enrico di Valdemont, suo cugino.
7) Il culto delle reliquie ebbe particolare risonanza tra gli Angioini. Lo stesso Carlo I donò alla cattedrale di Ariano due spine della corona di Cristo. Suo fratello, S. Luigi IX, impegnato da quelle parti nelle prime due crociate, era riuscito a portarne diverse da Costantinopoli, dove si conservava la corona del Signore.
8) Carlo, nella sua discesa, sconfitti gli ultimi Svevi, trovò una situazione religiosa preoccupante per il diffondersi di sette eretiche di ogni genere. Rappresentò il braccio armato per il ripristino dell’ortodossia. Lo stesso S. Elzeario certamente ebbe un ruolo importante.
9) Ad Ariano non vi è ricordo nel popolo di una S. Elena né esistono chiese o cappelle a lei dedicate. La storiografia locale ci parla di una S. Elena Arianensis, cosa strana, in quanto per tutti i Santi Patroni di Ariano vi è un qualche elemento agiografico certo. In un caso si fa cenno alla tradizione laurinese, ma sulla scorta della testimonianza del laurinese abate Garrasi.
10) Le pagine del codice napoletano della sezione brancacciana della Biblioteca nazionale di Napoli, ove è trascritta la legenda della Santa, anche a giudizio degli esperti archivisti paleografi della sezione, potrebbero essere attribuiti al ‘600, forse anche tardo.
11) I riferimenti alle Cronache d’Auxerre, che gli autori locali dell’800 e del ‘900 della vita della Santa sostengono raccolte dal Cardinale Vittore Felice Bernardou, arcivescovo d’Auxerre al tempo di Mons. Giovan Battista Siciliani, vescovo di Vallo della Lucania (vedi parte I della “Vita”), sembrano destituite di ogni fondamento e sono facilmente confutabili alla luce dei più elementari criteri storiografici.
12) Destituito di ogni fondamento è anche l’attribuzione del cognome
“Consalvo” di derivazione spagnola.
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La storia di S. Elena Mino Schiavo PARTE III S.ELENA – ICONOGRAFIA Nella relazione di Mons. Giovan Battista Siciliani, vescovo della diocesi di Capaccio e Vallo, al Santo Padre del 18 giugno 1867, con la quale si chiedeva di concedere la grazia di permettere il culto pubblico e solenne…e di approvare l’Orazione e le Legende dell’Officio, vi è un dettagliato elenco di immagini e simulacri della Santa. L’iniziativa si inserisce in un periodo difficile per la diocesi. Il vescovo, di fede borbonica, era stato costretto per dieci anni all’esilio dai liberali di Vallo, tornandovi solo nel 1866, ma stabilendo la sua residenza a Capaccio. Le "leggi eversive" del 1866 - 67 portarono la diocesi vallense sull'orlo del collasso. L'abolizione del seminario paralizzò il processo di rinnovamento del clero con tanta fatica intrapreso. II popolo tutto mal sopportò i nuovi soprusi, perciò non mancò in più di qualche centro di protestare vivacemente. Il conflitto di coscienza, in atto in tutta Italia, non fu meno sentito dalla comunità cilentana. La Chiesa vallense ancora una volta si pose al lavoro con spirito nuovo. Cercò di avvicinare i lontani e di rafforzare la fede di chi era stato vicino. Appena tempi migliori lo permisero venne riaperto in Massa, presso il Convento dei Cappuccini, il seminario diocesano. Il nuovo secolo portò anche nella comunità ecclesiale vallense una ventata di spirito nuovo. Si favori in modo particolare l'Azione cattolica per promuovere la maturazione cristiana del laicato, si cercò di far rivivere le vecchie associazioni, si profuse un nuovo impegno nell'evangelizzazione. Il crescente allontanamento dalla pratica religiosa, la scarsa frequenza dei sacramenti, l'aumento dei matrimoni civili e delle unioni illegittime, l'acuirsi della propaganda anticlericale postulavano una presenza più viva e incisiva. LUOGO - DESCRIZIONE - DATAZIONE (Dall'elenco di mons. Siciliani) Chiesa di Ognissanti-Laurino Visita pastorale Mons. Tommaso Carafa, 1641 – Cona dell’altare maggiore: In coro adest magna cona de tabula picta antiqua et parte suprema in medio est apparitio Sanctoum Magorum adorantium Iesum Christum, a dextrix imago S. Helenae compatriotae, che abbraccia un albero di alloro con la seguente iscrizione: AD TE SUPPLICITER TRISTE (sic) HELENA PRAECAMUR CONFUGIMUS/POPULUM PROTEGE SANCTA TUUM. Mons. Reginaldo Mazzei, in un manoscritto perduto, citato da Giustino Pecori, afferma di aver letto l’anno: che di poco varcava il 1100. La relazione al Papa di Mons. Siciliani più correttamente riporta TRISTESHELIENA. Principi sec. XII. PERDUTA * Cappella di S. Elena extra moenia- Gorgonero, Laurino Statua in pietra (1720): la santa è raffigurata con mani giunte da orante, capelli castani, testa coronata di rose, in stile barocco. Pima se ne venerava un’altra, in stucco, che si conserva nella stessa chiesa, alta quanto al vero(mt.1,44)…rappresenta una donzella di circa 15 anni…manto color giallo…tunica rossa rubescata e stellata…capelli biondi…pare che sia il genuino ritratto della Beata eseguito sulla maschera. Si fa riferimento alla leggenda, che vuole che il corpo, mentre veniva trasportato a Paestum dopo la morte, si fece tanto pesante a Gorgonero, da indurre il Vescovo ad ordinare di costruirvi una cappella, che è anteriore al 915 per le ragioni sopra esposte. Nel 1271 fu costruito il ponte per accedervi. La cappella fu rifatta ed ampliata nel 1720. * Convento di S. Antonio da Padova (dal 1579 assegnato ai Minori osservanti); prima Nosocomio di S. Antonio abate- Laurino Statua in legno a mezzobusto sull’altare di S. Ludovico da Tolosa, fatta eseguire dal dott. Don Ludovico Santoro, abate della chiesa di San Biagio (1649-1704). In origine presentava tunica e manto dorato, capelli biondi; in seguito fu scioccamente deturpata col dipingere blu la tunica e nei capelli. Mons. Siciliani riferisce che fu scolpita nell’anno MIILI. In realtà è del XVII secolo. * Chiesa collegiata di S. Maria Maggiore-Laurino * Sacrestia – Dipinto su tavola, antichissimo lavoro della scuola greca (relazione Mons. Siciliani) Sec. XI (?). PERDUTA * |
Chiesa collegiata di S. Maria Maggiore, ora presso il Museo diocesano di Vallo. Una copia, a cura dell’Associazione Laurino nel cuore è esposta nel Museo civico presso la chiesa dell’Annunziata- Laurino Nel Polittico di Cristoforo Faffeo il riquadro che raffigura S. Heliena de Laurino 1482 * Chiesa collegiata di S. Maria Maggiore- Laurino Statua in legno a mezzo busto sull’altare eretto in onore della santa alla fine del XIX sec. Capelli biondi. E’ la statua che viene portata in processione. L’aspetto della figura è quello di una donna più matura. Quasi sicuramente raffigura S. Elena imperatrice. Sec. XV, probabilmente proveniente dalla Cappella di S. Maria del Carmelo. * Cappella di S. Maria del Carmelo-Laurino Statua di S. Elena imperatrice con S. Elia, S. Vito, S. Elena concivis Laurini. L’Elena madre è raffigurata in piedi; nella sinistra stringe la croce in petto, ha tunica a manto, capelli cascanti in anella, aureola sul capo. L’Elena anacoreta è sulla sinistra; cinge un albero di alloro, con la destra accenna al cuore, capelli biondi cadenti sulle spalle; ha tunica rossa ricamata in oro e manto interamente dorato. (Si tratta in realtà della pala d'altare di S. Maria Maggiore attualmente in questa chiesa) Sec. XVIII (1713) * Cappella dell’antico castello-Laurino Immagine a fresco sormontata dallo stemma dei feudatari sig.ri Carafa: in piedi nella destra un ramo di alloro, nella sinistra un libro; ha tunica rossa, manto giallo, capelli biondi cascanti in riccioli, tunica bianca, sopraveste blu, manto giallo. Sec. XVI. PERDUTA * Chiesa della SS. Annunziata-Laurino Affresco nella scodella tutta dipinta, genuflessa adorante la SS. Trinità, tra S. Caterina e S. Nicola di Bari; capelli biondi, tunica bianca, sopraveste blu, manto giallo. Sec. XVII/XVIII * Cappella urbana di S. Helena, edificata sulle rovine della presunta casa paterna Volta a botte. In 8 riquadri i fatti principali della vita della Santa, sempre in tunica blu e manto color fiamma, capelli biondi cascanti a riccioli sulle spalle; nella nicchia dell’altare maggiore statua in legno in piedi con la croce nella sinistra, nella destra la palma, manto giallo, tunica blu (ma si tratta di S. Elena imperatrice) Sec. XVIII (1713) * Cappella di S. Elena nel bosco di Pruno Statua in marmo Sec. XVIII (1730 o 1720) * Chiesa collegiata di S. Maria Maggiore Statua giacente in teca di cristallo, che conserva le reliquie; vesti bianche ed azzurre; capelli castano scuri Sec. XIX (1882) Soprattutto a partire dal XVI secolo, in molti casi, si tende a sostituire i colori rosso cupo della tunica e turchino orlato d’oro del mantello della iconografia bizantina con quelli bianco-celesti della tradizione latina. I bei riccioli biondi cascanti assumono toni castani e pesanti forme barocche. Probabilmente sul fenomeno gravano anche gli effetti della Controriforma, tendenti a riportare nell’alveo della tradizione latina sia l’immagine della santa sia il culto e il tempo della sua vita. |
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LA STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte IV
Sant'Elena e Sante Elene
Il culto tributato A S. Elena imperatrice è spesso associato a quello del grande Costantino, suo figlio, specialmente nell'Italia meridionale. La sua diffusione ha dato luogo al sorgere di culti, nella tradizione popolare, di sante locali alle quali, verosimilmente, veniva assegnato per devozione, lo stesso nome della più grande Elena.
L'Elena vergine anacoreta di Laurino, più correttamente Eliena, può rappresentare, in questo quadro, una delle punte estreme di diffusione del culto, ai margini della Lucania confinante con il Tema bizantino di Calabria (Merourion).
LA STORIA DI S. ELENA
Mino Schiavo
Parte IV
Sant'Elena e Sante Elene
Il culto tributato A S. Elena imperatrice è spesso associato a quello del grande Costantino, suo figlio, specialmente nell'Italia meridionale. La sua diffusione ha dato luogo al sorgere di culti, nella tradizione popolare, di sante locali alle quali, verosimilmente, veniva assegnato per devozione, lo stesso nome della più grande Elena.
L'Elena vergine anacoreta di Laurino, più correttamente Eliena, può rappresentare, in questo quadro, una delle punte estreme di diffusione del culto, ai margini della Lucania confinante con il Tema bizantino di Calabria (Merourion).
SANTE ELENE
S. Elena imperatrice
S. Elena (Eliena), vergine anacoreta di Laurino. S. Elena vergine di Auxerre S. Elena vergine di Sens S. Elena vergine di Belforte (CZ) S. Elena di Cerchiara A Cerchiara esisteva lo Xenodochium, istituzione prettamente bizantina, così come gli ospedali/infermerie (nosokomeia), alberghi per forestieri (xenodogheia). Anche a Laurino esisteva uno Xenodochio (hospitium miseris peregrinis pauperibus), tre nosocomi: S. Antonio abate, S. Spirito, dell'Annunziata). S. Elène nei pressi di Davoli (CZ) detta anche Santa Lena Anche S. Elena di Laurino è chiamata S. Lena nel dialetto locale. Santa Heliena Virgo Laurinensis |
celebrazione Chiesa latina
18 agosto-21 maggio-22 maggio
20 aprile-Prima 30 aprile, dopo 22 maggio. Si venera anche l'ultima domenica di gennaio, il 18 agosto, l'ultima domenica di ottobre. Ora il 22 maggio e il 18 agosto. 22 maggio 22 maggio ________________________________________ 8 febbraio. |
celebrazione chiesa greca
21 maggio
21 maggio _________________________________________
Lauda popolare a Santa Lena
...Sia laurata Santa Lena ca foje sposa ri Ggiesù, ra chi li voze bbene sia laurata Santa Lena. Ra l'Angiulu foje vulata, 'nparavisu foje purtata, Santa Lena sia laurata... |
Tranne che per l’Elena di Belforte, emerge la tendenza a differenziare, nella festa liturgica, il culto delle Sante da quello di S. Elena imperatrice.
L’Elena di Laurino è un perfetto calco dell’Elena di Auxerre.
Anche un teologo frate francescano, Fortunatus Hüber (1639-1706), s’interessa a S.Heliena Virgo Laurinensis, nell’ambito di un vasto e dotto studio sugli angeli, pubblicato nel 1697. Come fonti cita, probabilmente, un autore alquanto secondario di cose ecclesiastiche (Antonio Bagatta, detto anche Cavalier Antonio Bagatta o Antonio Bagatta Benacense), che trae la notizia dal notissimo Abraham Bzowski, continuatore, dall’anno 1198, dei monumentali Annales ecclesiastici del Cardinale
Cesare Baronio. Tuttavia nel volume 13°, 1198-1299 (p.797 dell’edizione curata dal Bzowski, Coloniae Agrippinae, MDCXVI), all’anno 1270, è riportata una Helena Virgo Stigmata, d’imprecisata origine, ma le cui vicende, in qualche parte (la chiamata dell’angelo, la traslazione del corpo, ma dopo 17 anni) rimandano ad un topos
comune all’Heliena laurinense. Il Bzowski assegna il culto ad un ambito orientale (ai tempi del regno di Michele Paleologo), mentre, evidentemente, l’italico scrittore assegna all’Heliena la provenienza laurinese. Dunque il calco Heliena>Helena>Elena era già da qualche tempo iniziato in ambito storiografico italiano, da quando,
probabilmente, apparve il secentesco manoscritto della legenda della Santa, forse in possesso di Costantino Gatta (1673-1741), storico di Sala Consilina (SA).
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LA STORIA DI DI S.ELENA
Mino Schiavo PARTE V CONCLUSIONI Non vi è alcun dubbio che il culto tributato a S.Elena di Laurino sia molto antico. Vi è più d’un indizio che la storiografia ed il clero locali si adoperarono per riportarlo in ambito “latino” e per recuperare, come è giusto che fosse, le presunte sacre reliquie. Le due operazioni, di certo, non sono prive di ambiguità.Nei secoli XIV e XV ancora pullulavano credenze magiche e demoniache, giaculatorie e scongiuri, che sono capillarmente diffusi, in volgare, fino al ‘600 inoltrato. Era diffusa anche un devota orazione de S. Elena, che è messa all’indice come superstiziosa. Nel 1649 si tiene a Laurino, in S. Maria Maggiore, un importante Sinodo, indetto dal vescovo Tommaso Carafa. Nei verbali di una sua visita pastorale del 1641, l’icona, nella chiesa d’Ognissanti, raffigurante la santa come Heliena, è detta Elena, nonostante la lettura dei versetti posti alla base da parte del sac. D. Reginaldo de Mazzeis. Un ramo dell’insigne famiglia napoletana dei Carafa, quello dei principi di Stigliano, resse il Ducato di laurino dal 1548 al 1806. Deriva dal ceppo principale cui fa capo il più noto Gian Pietro Carafa (Papa Paolo IV), fondatore con Gaetano di Thiene della congregazione dei chierici regolari teatini che, con il gruppo che faceva capo a Francesco Cornaro, vescovo di Brescia, durante lo svolgimento del Concilio tridentino, si adoperò per la restaurazione di una ferrea disciplina ecclesiastica, manifestando forte decisione di lotta contro l’eresia.Tommaso Carafa, temperamento collerico, diresse la diocesi in un periodo particolarmente difficile. Dietro l’onda lunga della rivolta di Masaniello, anche il Cilento fu scosso da moti violentissimi delle plebi rurali, che si scatenarono non solo contro le angherie e le sopraffazioni di ogni genere della nobiltà locale e degli esosi prelievi fiscali della monarchia, ma anche contro le chiese ed il vescovo. L’anno 1647 fu un anno terribile: sedizioni, incendi, parricidi, devastazioni. Alleati ne aveva pochi. Lo stesso clero conduceva una vita quanto mai corrotta, commettendo errori ed arbitri, trascurando il culto e l’impegno pastorale, deviando dai canoni del Concilio tridentino. Nel clima di diffusi conflitti giurisdizionali, al sinodo non si presentarono abati di importanti abbazie, arcipreti, curati e rettori di estrazione certosina. Nel popolo ampi strati non erano battezzati, né uniti in matrimonio con il rito della Chiesa di Roma. Magia e superstizione erano diffusissimi, circolavano nella diocesi aegyptiacae mulieres (donne egiziane), vulgo Zingare nominatae (chiamate “zingare”), bande di cingari vero sive Aegyptiaci et Saraceni, che con veneficiis, lamiis, strigis, ariolis, divinatoribus, sortilegis…facturas et ligaturas seminavano nel popolo le loro arti infernali. Nello stesso anno 1649 Innocenzo X istituiva la congregazione sullo stato dei regolari, che doveva occuparsi della riforma del clero. La grande preoccupazione del Carafa, come quella dei vescovi di tutti i sinodi del ‘600, era quella di diffondere la dottrina cristiana anche sotto le forme ed i modi della più odiosa inquisizione. Di lì a poco imperverserà la tragica peste del 1656, che si abbatté, quasi flagello divino, sulle misere popolazioni, decimandole e gettando nel più nero sconforto masse di derelitti. Intanto, dopo pochi anni dal Sinodo, nel 1654, il Capitolo della Cattedrale di Aversa, concesse una reliquia del corpo della venerata santa locale al patrizio d.Ludovico Santoro, chiedendo al vescovo Carafa di compilare gli atti necessari affinché fosse esposta alla pubblica venerazione. Il Carafa delegò l’abate d. Giulio Santoro, che il 6/5/1654 emise il decreto di ricognizione e di approvazione |
Pellegrinaggio alla grotta di Pruno 1916
Si era aperta, in tal modo, la strada per il recupero dei sacri resti, finché il vescovo di Trivico, Mons. Simone Viglini (o Viglino) consacrò il duomo di Ariano Irpino per delega del vescovo di quella città Mons. Giacinto della Calce. Ad assisterlo nella sacra funzione vi era il canonico Rosario Riccio Pepoli, di Piaggine, cantore della Collegiata di S .Maria Maggiore, rinomato autore di testi ecclesiastici, che svolgeva le funzioni, in Ariano, di Vicario generale. In quella occasione Mons.Simone Viglino…presa una cassa di reliquie alla presenza ancora di quel Vicario Generale D. Rosario Ricci ( ma “Riccio”) Pepoli e, rottine i suggelli, apparve l’autentica logora del tempo, che dichiarava essere quelle le reliquie di Elena di Laurino, Vergine. Il Riccio-Pepoli riuscì ad ottenere una reliquia insigne, l’osso femorale,riconosciuta come tale da una bolla in pergamena dello stesso Viglino del 6/11/1713 e da un rescritto del Vescovo diocesano del 23/5/1714. Infine l’abate d. Luigi Garrasi, nel 1882, riuscì ad ottenere l’arca delle reliquie, vescovo Mons. Francesco Trotta, anch’egli salernitano. La storiografia locale di fine Ottocento – lo stesso Garrasi, il Pecori, il De Stefano, preceduti dal Politi – continuò nell’opera di “latinizzazione” del culto, cercando di mettere insieme i numerosi traballanti tasselli che facevano scricchiolare molto l’impianto, ingenerando, però, una fastidiosa confusione ed inaugurando un metodo protrattosi fino al 1938 con la pubblicazione di un opuscolo retorico-agiografico-poetico, logica summa della strada intrapresa. La stessa relazione al Santo Padre con la quale il Vescovo Mons. Siciliani chiedeva che il culto fosse riconosciuto, forse stesa dallo stesso Mons. Garrasi, non ne è immune. Ci fermiamo qui, ma ci piace ricordare l’iscrizione alla base dell’antica icona della chiesa d’Ognissanti: AD TE SUPPLICITER TRISTE(S) HELIENA PRECAMUR CONFUGIMUS POPULUM PROTEGE SANCTA TUUM Supplichevoli, Eliena, noi infelici preghiamo ricorrendo a te. Proteggi, o santa, il tuo popolo |
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HELIENA VERGINE ANACORETA DI LAURINO
Mino Schiavo APPENDICE La vita di S. Elena vergine anacoreta di Laurino in provincia di Salerno si può leggere in tre "lectiones" in un manoscritto che risale, con ogni probabilità, al tardo seicento, pubblicato dal padre bollandista Antonio Beatillo e raccolto dal Poncelet. Ritengo che gli ambienti ecclesiastici post-tridentini, prima, e la storiografia locale, poi, si orientarono a collocare in ambito latino un culto sorto fin dalla prima metà del terzo secolo e modellato sull'altro tribuito alla più famosa Elena imperatrice. Culto, a sua volta, associato, specialmente nell'Italia meridionale, a quello del grande Costantino, probabilmente di derivazione orientale, per le motivazioni che saranno addotte. Si avanza l'ipotesi che la diffusione del culto della grande Elene dette luogo, nella tradizione popolare, al sorgere di culti di sante locali fra la fine dell'VIII sec. e gli inizi del IX, alle quali veniva assegnato lo stesso nome. L'Elena (seu Heliene), vergine anacoreta di Laurino rappresenterebbe, in questo quadro e in quell'epoca, una delle punte estreme di diffusione, ai margini della Lucania confinante con il Tema di Calabria. Laurino, località del Cilento interno, patria di S. Heliena vergine anacoreta che la storiografia locale colloca fra la fine del VI e gli inizi del VII secolo, si presentava, nei secoli IX-X, come una vera e propria cittadella monastica fortificata, elevata al rango di contea da Gisulfo I (946-977), disseminata di laure che guardavano verso il maestoso castello longobardo, di chiese e di monasteri. Al centro dell'attuale impianto urbanistico sorgeva un'edicola intorno alla quale fu eretta la chiesa madre di S. Maria Maggiore che l'Ebner ha identificato con l' Hodigitria. Altre chiese ( S. Maria del Mondo-la Pantanassa-, S, Biagio, S. Simeone, S. Antonio abate e numerosi culti (S. Michele arcangelo, S. Nicola, i santissimi Anargiri Cosma e Damiano, S. Elena imperatrice, S. Irene, S. Sofia, ecc.) rimandano ad insediamenti italo-greci. L'ultima testimonianza che riconosce alla Santa il nome Heliena (poi sarà Helena o Elena) è il polittico di Cristoforo Faffeo del 1482. Il primo documento che ho potuto rintracciare di evoluzione del nome è del 1641 (visita pastorale di mons. Carafa), quando la Santa che era raffigurata in una icona della chiesa di Ognissanti di Laurino sotto il titolo di Heliena, viene detta Elena. E' da osservare che tale lettura avviene nella temperie culturale che avrebbe condotto alla convocazione di un importante Sinodo, tenuto di lì a poco a Laurino (1649) e presieduto dallo stesso vescovo Tommaso Carafa preoccupato, in una particolare situazione sociale, a riportare nell'ambito dei più rigidi canoni del Concilio tridentino il clero e la popolazione locale. Dopo pochi anni dal Sinodo (1654) il Capitolo della Cattedrale di Aversa concede una reliquia del corpo della Santa al patrizio laurinese D. Ludovico Santoro che si trovava ad operare non distante da Aversa quale alfiere dei cavalleggeri delle milizie del Conte di Casalduni (BN), chiedendo al vescovo Carafa di compilare tutti gli atti necessari affinché la reliquia fosse esposta alla pubblica venerazione. Infatti il canonico d. Giulio Santoro, fratello del menzionato Ludovico, il 6.5.1654 emette un decreto di ricognizione ed approvazione della reliquia, quale delegato di mons. Carafa. Non è possibile dire se alla base dell'evoluzione del nome siano fattori di carattere "ideologico". Probabilmente circostanze di carattere contingente, dato l'inconsueto appellativo, indussero ad una scrittura più semplice e credibile. Si apriva così la strada per il recupero dei sacri resti le cui vicende sono tortuose e quanto mei ambigue e contraddittorie. Tuttavia contemporaneamente si registra una evoluzione in direzione di una latinizzazione del culto, ingenerando nella storiografia locale, confusa e volta alla ricerca di equilibrismi cronologici di ogni sorta per tenere insieme i tasselli che non reggevano, una fastidiosa confusione e metodi palesemente scorretti e spesso mendaci. La stessa lunga relazione di mons. Siciliani, vescovo della Diocesi di Capaccio-Paestum, al Pontefice (1867), tesa alla concessione del culto pubblico, non ne rimane immune. Di pari passo, a partire dal XVI sec., assistiamo ad una trasformazione iconografica della Santa. Si tende a sostituire i colori rosso cupo della tunica e turchino orlato d'oro del mantello, propri della iconografia bizantina, con quelli bianco-celesti della tradizione latina. Anche i bei riccioli biondi cascanti assumono toni castani e pesanti forme barocche. Anche in questo caso il fenomeno può essere addebitabile semplicamente al gusto dell'epoca. Pertanto per cercare di mettere un po' di ordine storiografico conviene soffermarsi brevemente sul codice pergamenaceo. Nella seconda "lectio" è detto che la Santa, ad un certo punto della sua vita terrena, si sia ritirata ad cryptam quae vocatur specus, iuxta horreum veteris Rofrani; ubi mansit incognita per unius mensis spatium...Quod postquam venit ad notitiam vicini monasteri, monachi ipsius loci mirati sunt valde, et ascendunt illuc duo viri religiosi, et ei supplicaverunt, ut ab Ecclesia quotidie acciperet alimentum. Vi si leggeva anche che per i religiosi faciebat cucullas et thiaras. ______________________________________________________________________________________________________________________________________ IL CASTELLO Mino Schiavo |
Il luogo dove sorgeva Rofrano Vetere è ora conosciuto come Pruno di Laurino. La grotta dove si ritirò la Santa, sovrasta in linea d'aria non più di 300/400 metri i pochi ruderi di un antico monastero. Il Pecori ci riferisce di un diruto cenobio dei Basiliani. detto di S. Benedetto(sic!) in Rofrano vetere ove ai tempi di S. Elena abitavano ancora i Benedettini, che i monaci dovettero abbandonare in quanto perseguitati dai banditi e dalle incessanti incursioni dei barbari, erigendo un nuovo cenobio su di un colle poco distante ove ora sorge Rofrano nuovo.
Il diruto cenobio, riportato sempre come benedettino dalla storiografia locale, sarebbe ricordato in un non meglio precisato Ufficio ecclesiastico della Santa, certamente modellato sul manoscritto pubblicato dal Beatillo nel quale, tuttavia, è citato sono un generico monastero. I punti che meritano attenzione sono due: 1) che ai tempi della Santa nel monastero abitavano ancora i benedettini; 2) che i monaci perseguitati dai banditi e dalle incessanti persecuzioni dei barbari, si ritirarono a fondare un nuovo casale. Il Ronsini ci informa , anche lui facendo riferimento all'Uffizio, che il corpo della Santa sarebbe stato deposto nella Chiesa di Laurino e, dopo varie vicende, translato in Auxerre, riportando presunte notizie tratte dal Martirologio romano. Citando, poi, il Volpi ne fissa la data al 534. Giustamente, però, fa notare che se così fosse, considerato il tempo che Elena trascorse a Laurino e le vicende tristi della sua giovinezza, il cenobio benedettino sarebbe esistito assurdamente prima del 480, nascita di S. Benedetto. Giunge così alla ovvia conclusione che il termine benedettino mal si concilia con i tempi della vita della Santa. Evidentemente, dunque, l'Uffizio della santa si arricchisce di ulteriori elementi atti alla "costruzione" di una collocazione latina, in riferimento all'altra Elena di Auxerre vissuta probabilmente nel V secolo. Anche i riferimenti al Martirologio romano sono del tutto inattendibili, tratti dalla precedente storiografia locale. Tuttavia cercando di stabilire il tempo di fondazione del nuovo casale, si potrà gettare una qualche luce sulle vicende. L'antico suggello di Rofrano ha come effigie la SS. Vergine con un basiliano ai suoi piedi. Il casale fu verosimilmente fondato agli inizi del X secolo, se non prima. Nel Diploma greco di Ruggero II del 1131 (concessione della Badia e del Feudo all'abate Leonzio con le vastissime dipendenze, vengono onfermate le concessioni fatte dall'antecessore Guglielmo e prima ancora dal cugino Ruggiero. Nella relazione della visita ad limina di mons. Siciliani del 1867 si legge che la Chiesa di S. Maria, vulgo dicta Grotta Ferrata...a monacis Basilianis (sic) in octavo saeculo condita fuit, anche se quest'ultima affermazione potrebbe avere poco valore. Se tuttavia, così stanno le cose, i banditi e i barbari non possono non essere che i Saraceni. Del resto in Acta Sanctorum si osserva che, dal momento che nell'Uffizio è nominato l'Episcopus paestano non caputaquensis, la Santa floruisse ante Saracenorum in partes illos irruptionem. Paestum subì un violento attacco dei Saraceni nel 915. In quella città doveva trovarsi il corpo della Santa, translato dal Paestanum Pontificem e cum maximo honore illud ipse humavit XII Kal. Maji (20 Aprile, data che differenzia la nostra da ogni altra Elena),per poi essere trafugato da improbabili Franceschi, credendolo il corpo della più grande Elena. In tale giorno, infatti, si venerava la Santa con grandi fuochi ( in dialetto fanoie ,cfr. greco fanòs "luminoso"; fanè "torcia" e processioni di "cente", cesti a forma di barca, adorni di ceri e di fiori, rituale che rimanda alla liturgia greco-bizantina. Non da molto probabilmente la Santa doveva essere spirata, l'Helièna anacoreta, seu Eliena, ma Elini nella pronuncia greco-bizantina, tanto da spiegare la permanenza della -i- nella leggenda del suo Uffizio, da cui Elièna-Elèna-Elena. Nel dialetto locale è detta S. Lena con la caduta della E iniziale. Il nome evidentemente, in una fase intermedia, on ancora era diventato sdrucciolo, permanendo piano come nella S. Elène di Davoli. Nella pronuncia comune ho avuto modo di registrare anche Elina. Il secolo IX potrebbe essere il suo tempo. Successivamente la festa liturgica fu spostata al 21 o 22 maggio, un'altra il 18 agosto, per evidente sovrapposizione dell'altra Elena di Auxerre (22 maggio) e della grande Elena imperatrice (21 maggio per la Chiesa greca, 18 agosto per quella latina). Mino Schiavo AVVERTENZA. Il saggio qui pubblicato è lo studio più completo su Santa Elena di Laurino, corroborato dall'intera documentazione e letteratura storica esistente. Per motivi pratici sono stati omessi i riferimenti bibliografici e le numerose e dettagliate note al testo. Chi fosse interessato ad approfondire l'argomento può farne richiesta via e-mail. LE ORIGINI DI LAURINO Bruno Durante |
Del castello di Laurino si dic e che eique (“Landolfo”) Laurim Castellum ad optinendum dedit, quod suus extinctus germanus tenuerat (“Landenolfo”).
La contea di Laurino, dunque, era stata concessa prima a Landenolfo che morì prima del padre, durante il viaggio di nozze da Trani a Salerno (971) e, poi, al fratello Landolfo. Si tratta proprio di quel Landulfus Princeps et Monachus, di cui ci parlano le carte cavensi, prima detto conte di Laurino, indi collega in Salerno di suo padre Landolfo, fattosi, poi, forse, monaco nel 1004. Proviamo a ricostruirne il contesto storico. Nell’anno 964 Landolfo, figlio del principe Atenolfo di Capua, per iniquità, per orgoglio e crudeltà era stato con tutti i suoi figli discacciato da Capua, e si era ritirato a Napoli….il buon principe Gisolfo (930-977/978, principe dal 946 alla morte), a preghiere di sua madre (“Gaitelgrima”), ch’era sorella di esso Landolfo non solo li chiamò in Salerno, e lo arricchì, ma lo rendè ancora il primo dopo di lui nel Principato, per la sua affettuosa confidenza, e per avergli dato il contado di Conza, e altri contadi ai di lui figli, a Landolfo, uomo fraudolento e di pessima fede, quel di Laurino, Sarno ad Indolfo, e Marsico a Guaimario( 971). Landolfo, quindi, fu il secondo feudatario di Laurino. Non ne furono certo contenti i due nipoti, conti Guaimario e Guaiferio, cui fu riservata picciola donazione, eppure figli di due fratelli germani, a loro volta figli del principe Guaimario II, allorché Gisolfo diede a famiglia straniera i Contadi di Conza, di Laurino, di Marsico, di Sarno; e tutti ad una sola famiglia, che videro poi servirsi degli stessi, per mandare in rovina lo stesso Gisulfo. Più volte Landolfo aveva cospirato contro il nipote fino all’arresto ed al trasferimento in catene ad Amalfi insieme con la moglie Gemma (973). Il minimo che Gisulfo potesse fare fu quello di togliergli temporaneamente la contea di Conza, ma era stato costretto a piegarsi alle “preghiere” della madre. Di fatto i due fratelli divennero vassalli di una famiglia straniera. Per di più Gisulfo, non avendo avuto da Gaitelgrima alcun figlio, nel 974 adottò e associò al Principato il figlio minore di Pandolfo (il Testaferrata), Principe di Benevento, anche lui di nome Pandolfo (II). Nello stesso anno Gisulfo era stato spodestato dal fratello Landolfo; il Testadiferro lo restaurò come suo vassallo,ereditandone il trono alla sua morte (977/978). Nell’adottare Pandolfo, Gisulfo gli diè in Ajo Giovanni di Lamberto (primi decenni X sec.- ?), figlio di Lamberto di Toscana (?-938), che sposò, nel 954, Gaitelgrima di Teano o di Capua (935-?) del quale disse, che già era Conte di Laurino., col nome evidentemente di Giovanni di Laurino. Morto Pandolfo Testaferrata nel 981, i suoi possedimenti furono divisi fra i suoi figli, dopo aspre contese. A Landolfo toccarono Capua e Benevento, mentre Pandolfo II fu principe di Salerno. Molto probabilmente la contea di Laurino passò al “toscano” Giovanni, che da allora, appunto, assunse il nome di Giovanni di Laurino (… nel 974 fu fatto tutore di Pandolfo Giovanni Conte di Laurino…). Aveva sangue bavaro e carolingio nelle vene, una illustre discendenza, ma non fu fortunato. Cacciato dai suoi possedimenti toscani il padre marchese Lamberto nel 931 da Ugo, re d’Italia, Giovanni, presumo per i buoni uffici della madre Gaitelgrima, figlia di Atenolfo, conte di Teano, giunse a Salerno alla corte di Gisulfo, che provvide a sistemarlo nella Contea di Laurino. Infatti già nell’anno 945 il Conte di Laurino, aveva donato al monastero di S. Benedetto di Salerno una selva in monte Peloso insieme con il casale di Moriano nei pressi di Montepeloso (oggi Irsina, provincia di Matera). Nel 988, dopo che la città fu assediata e distrutta per la seconda volta dai Saraceni, fu ricostruita da Giovanni II, principe di Salerno dal 983 al 999, figlio di Giovanni di Laurino. Il castello di Laurino esisteva, quindi, nella prima metà del X secolo, periodo in cui va collocata, con maggiore esattezza, la sua costruzione. Da una bolla papale del 1255, diretta Universitati hominum castri Laurini, su espressa volontà dei cittadini, Alessandro IV accoglie sotto la protezione papale il castrum, stabilendo che rimanga sempre de demanio Ecclesiae. Dunque, a quella data, il castello e il casale, dopo l’assedio di Federico II nel 1246, erano stati fortificati. Laurino era diventata un castrum, cioè una città fortificata. Già nel 1231 l’Imperatore aveva emanato lo statuto per il restauro dei castelli imperiali. I baroni locali dovevano contribuire alla loro manutenzione. Dunque, restando del tutto incerta la lettura Laurim per Laurino, il Conte Giovanni di Laurino sembra essere stato un possibile primo feudatario della contea con tal nome, altrimenti il terzo dopo Landenolfo e Landolfo. Seguirono Dauferio, morto nel 1017, precipitato con il cavallo in una vallata, e, nel 1025, Pandone, secondo il Di Meo. Sirca, forse sua figlia e nipote di Guaimario, sarebbe restata erede del contado, sposando Targhisio, signore del castello di Sanseverino, capostipite della dinastia normanna dei Sanseverino. I loro discendenti avrebbero portato il titolo di Duchi di Lauro, identificabile piuttosto con il paese nell’avellinese. Si perdono, a questo punto, le tracce dei feudatari della Contea. La contea, probabilmente, non avrà grandi feudatari fino all’epoca angioina. Il Catalogus baronum lo conferma. Vi è la lista di alcuni feudatari minori, ai tempi di re Guglielmo, che erano tenuti, secondo la propria (modesta)disponibilità patrimoniale, a fornire militi in occasione della sua partecipazione alle crociate o per la difesa del regno dalla minaccia saracena. È da presumere che alquanto scarsi dovettero essere i rapporti col potere centrale e piuttosto angusti i rapporti sociali al di fuori del contado, anche se i Normanni vollero che le antiche consuetudini fossero rispettate. Ciò che può apparire uno svantaggio, ritengo, invece, che fu l’occasione per mettere alla prova gli istituti cittadini e le qualità amministrative, frutto di antichissimi usi, consuetudini, statuti consolidatisi nel tempo, che daranno la stura, poi, all’elaborazione scritta di quelle magnifiche disposizioni elencate in appositi Statuti comunali. Il periodo svevo potenziò, evidentemente, con la sua avanzatissima legislazione frutto del genio di FedericoII e dell’ampia controllata autonomia concessa, tale tendenza. Dal documenti dell’epoca, infatti, sappiamo che il castello di Laurino era di proprietà regia. Laurino, cioè, era di fatto una libero comune, cioè una Universitas (da universi cives,“unione di tutti i cittadini”) demaniale, che dipendeva direttamente dalla Corona e godeva di maggiore libertà e privilegi. Terminati, dunque, per sempre i tempi “eroici” di Giovanni, dal quale discenderà la principessa Sichelgaita, sì, proprio lei, la coltissima principessa longobarda, spiccata la personalità, ferreo il carattere, che sposerà Roberto il Guiscardo, primo grande principe della dinastia normanna salernitana. __________________________________________________________________________________________________________________________________
Una storia di immagini lunga un secolo (o quasi) |
Le origini di Laurino si fanno risalire ai Sanniti che l'avrebbero fondata nel 280 a.C. ritirandosi in rotta sulle colline interne del Cilento a causa delle sconfitte subite dai romani dopo l'abbandono del loro alleato Pirro. In realtà i Sanniti non fondavano né città né paesi alla maniera dei Greci o dei Romani quando insediavano una loro colonia. Essi occupavano già dal VII sec., soprattutto sulle alture, l'attuale territorio del Cilento interno dove erano arrivati provenienti dal Sannio in diverse tribù: Pentri, Irpini, Lucani. Il loro era un insediamento diffuso costituito da piccoli agglomerati di capanne di fango e paglia, con le relative sepolture e abitate da famiglie dedite prevalentemente alla pastorizia. La ricerca storica e le indagini archeologiche escludono che la zona sia stata occupata dai romani che erano insediati sulla costa e nel Vallo di Diano dove correva la via Popilia.
Non si sa se nell'Alta Valle del Calore esistesse una "Touta", cioè un centro fortificato lucano con area sacra, ma è presumibile che sulla collina ben protetta avessero una sorta di villaggio di capanne circondato da una palizzata. Lì pian piano si agglomerò l'abitato costruendo le prime case in pietra a secco, poi legate a calce, e un piccolo castello, il "Castellum de Lauri" che diventò la sede della Contea di Laurino fondata dal longobardo Gisulfo I(946-977). Del castello è notizia già dal 932. La sviluppo del borgo fu favorito dall'arrivo di numerosi monaci greci di osservanza basiliana. Questi, in fuga da Costantinopoli per la persecuzione iconoclastica (726) e dalla Sicilia islamizzata (827-902), già dall'VIII sec. si erano insediati come eremiti nelle grotte della zona, raggruppandosi poi in una comunità, una "laura" con al centro l'edicola intitolata alla Vergine Odighitria, la futura S. Maria Maggiore. Da quella laura deriverà il toponimo Laurino. I monaci organizzarono la vita sociale e religiosa dei pastori sviluppando l'agricoltura e l'economia. I Longobardi del ducato di Benevento, per parte loro, soprattutto dopo la conversione al Cristianesimo, diedero un minimo di struttura politica e amministrativa al territorio. Dalla convergenza di interessi fra monaci e Longobardi nacque, contemporaneamente a tanti altri paesi cilentani, la Laurino storica e si sviluppò il borgo a tal punto che più tardi ebbe bisogno di un vero castello e di una cinta muraria diventando "Castrum Laurini". Mura e torri furono poi atterrate dalle soldatesche dell'imperatore svevo Federico II nel 1246 per punire l'appoggio fornito da Laurino ai potenti Sanseverino nella cosiddetta "Congiura di Capaccio". Ciò vuol dire che una prima cinta muraria fosse stata eretta già in epoca normanna. Le mura e il castello furono poi rinforzati dagli Angioini e dagli Aragonesi, rappresentando il borgo fortificato un baluardo difensivo lungo il percorso che dal Vallo di Diano portava alla piana del Sele e viceversa, con ultimo caposaldo Zadalampe (Sacco vecchia). Per la sua importanza strategica, il castello e forse il borgo, in epoca sveva era demaniale, diretta proprietà regia. Alla sua manutenzione erano tenuti i paesi di Corleto, Magliano, Felitto, Campora, Sacco e tutto il Giustizierato di Terra del lavoro. ____________________________________________________________
Così sono stati raffigurati: Bionda e snella, di una fragilità solo apparente, nascondeva un carattere forte e tenace, che avrebbe fatto di lei, tra l’altro, un’abile tessitrice di ambiziosi progetti politici; tenera e affabile nella vita domestica, era dotata di una insospettabile vigoria fisica, che l’avrebbe fatta annoverare tra le grandi eroine della terra. …decisa e volitiva fin dalla tenera età, ella aveva sempre avvertito, quasi fisicamente, tutto il fascino e l’orgoglio della sua discendenza principesca. Aveva preso nome dalla bisnonna Sichelgaita, moglie di Giovanni II, più noto come Giovanni di Lambert, padre di Guaimario IV e nonno di Guaimario V. Questa sua antica ava era ricordata come donna austera, saggia, influente e di grande fede religiosa…Nonostante
l’apparente fragilità della sua corporatura, Sichelgaita andava imparando l’uso della spada e della lancia e si addestrava diverse ore al giorno dimostrando, anche in questo, inaspettate attitudini. Poi si ritirava nelle sue stanze a leggere i classici latini e greci, le antiche carte della Scuola medica, a meditare, a pregare. …Ancora una volta Sichelgaita fu al suo fianco…gli scontri tra le truppe regolari e i rivoltosi furono accaniti e sanguinosi. In essi rifulse la singolare perizia nelle armi dell’ancora giovane duchessa.”Accompagnandolo anch’essa in armi – racconta Anna Comnena - dava insospettati esempio di coraggio e di temerarietà, lanciandosi contro i nemici imbracciando una lunga lancia e a briglie sciolte. Un’altra Pallade, se non una seconda Atena, sempre secondo la nobile storiografa. Questa la genealogia del conte Giovanni di Laurino. |
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" Arioppa "
il maestro laurinese della fotografia, con quest'occhio guardava il mondo. |
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UN FALSO STORICO: LA STAMPERIA DI LAURINO
Il mito della stamperia di Laurino
Mino Schiavo Un bel giorno di quasi cinquanta anni fa, un caro amico mi condusse a passeggiare verso porta ri li zippi (dal longobardo zippil, ‘punta, estremità’), detta anche dei curci (vuol dire insieme ‘corto e grasso, tozzo’ ed indica anche le castagne non innestate) o dei monaci, in riferimento ad un vecchio convento di cui rimangono pochissimi ruderi. È il costone roccioso alla sommità del quale insisteva la porta meridionale di accesso al paese, frastagliato di spuntoni. Ci soffermammo davanti alla chiesetta di Santu Niculieddu; ammirammo ancora una volta il magnifico portale della casa del barone Ciardulli (un violento reazionario della peggiore specie! ). Di grande delicato effetto stilistico, un uomo violento e, probabilmente, rozzo ed incolto a commissionarlo. Forse, discretamente, dietro di lui, si celava un delicato animo femminile, una di quelle riservate e forti donne laurinesi o vissute a Laurino, che ne hanno fatto la storia (la sorella, donna Isabella Ciardulli, che sposò Gaetano Politi, dalla cui unione nacque Nicolò, l’autore dell’Opera ri Santa Lena). Sì, perché, dovete saperlo, la storia di Laurino è storia di donne “guerriere” più che di uomini illustri. - Qui, sai, forse era l’antica stamperia – indicandomi, l’amico, un terrano. - Come fai a dirlo? - È scritto, è scritto in un libro! – continuò, entusiasmandosi –. È ‘nu libbricieddu. -Lu tengu!, orgoglioso. Lo avevo anch’io, un fascicolo dal titolo altisonante, Laurino monumentale: si ha ragione di credere che i Benedettini contribuirono alla creazione della stamperia di Laurino, essendo essi in quel tempo (scil. sec. XV-XVI) i depositari della cultura ed è attendibile che l’edificio di essa fosse l’attuale mulino a palmenti a poca distanza di (così!) Porta degli Zippi. Si ha ragione di credere? È attendibile che….? Depositari della cultura….? Boh! Fui colpito da quel scil., cioè dall’abbreviazione latina dell’avverbio scilicet, che significa anche cioè. Era, dunque, una persona che sapeva di latino, una persona colta, l’autore di quel libbricieddu. -Ne parla anche Italo Bruno nel suo famoso “Cilento in fiamme. Lu tengu! Una stamperia a Laurino, una delle prime in Italia, la terza? non mi sembrava verosimile. Verificai le fonti. La notizia era tratta dal manoscritto/dattiloscritto di Giustino Pecori, uno studioso, per lo più, di buon riferimento, ma non immune da pesanti responsabilità. Di porta degli Zippi, del mulino a palmenti…..nessuna traccia. Il Bruno, che, peraltro, ha l'unico merito di aver messo mano, per primo, ad una bozza di alcuni momenti della storia laurinese, afferma che l’attività tipografica era documentata e regolata negli Statuta e che alcuni opere erano conservate presso la famiglia Pesce. Ma quando mai!? Fantasie storico-poetiche. ______________________________________________________________________________________________________________________________________
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Ma perché? Per magnificare la gioventù Laurinese (così, con la –L maiuscola, pur essendo un aggettivo) che veniva educata nello sviluppo delle sue doti fisiche ed intellettive mediante la cultura e la pratica negli esercizi ginnici…e dalla quale scoppiettava, nelle tenebre di tempi oscuri, qualche scintilla della preziosa crisalide del sapere nelle stanze del Gymnasium. Perbacco! Stupidaggini. S’intendeva una scuola nella quale i dotti ecclesiastici, unici depositari di quelle conoscenze, insegnavano le lingue greca e latina ai rampolli della “meglio gioventù”, cioè ai figli del ceto nobiliare. Una scuola privata ecclesiastica, niente di più. Umile artigiano, probabilmente di qualità, era, invece, Tommaso Riccione, Terrae Laureni, sì proprio di Laurino, un tipografo attivo a Napoli negli anni 1555-1557 e, poi, in quest’ultimo anno, ad Eboli. Certamente era conosciuto in patria, un concittadino che aveva onorato le nobili origini (su questo non c’è alcun dubbio) del paese. Di qui la leggenda, che si è arricchita, nel corso dei secoli, di ulteriori elementi, come, ad esempio, la tradizione locale letteraria e forense che ha costituito oggetto privilegiato delle celebrazioni della storiografia municipalistica. Laurino, infatti, si arricchì di giureconsulti, di avvocati, di letterati, di medici, di ecclesiastici attivi a Napoli tra il ‘500 e il ‘700, alcuni di essi autori di fortunate opere (Lionardo Riccio, Rosario Riccio Pepoli, Giulio di Lauro, Pasquale Perelli, Giuseppe Vecchi, Lodovico Santoro, Felice Milensio etc.). Poi Enrico Spinelli di Sala Consilina, finissimo bibliofilo, tra l’altro, dirigente del Servizio Biblioteche ed Archivi di Ferrara e Direttore della Biblioteca “Ariostea”, riportò le cose al posto giusto, ad una realtà più umile, come umile ed oggettiva deve essere la storia, se vuole essere credibile e davvero “maestra di vita” . (v. E.SPINELLI. La cinquecentesca stamperia di Laurino: analisi di un mito tipografico, in “RASSEGNA STORICA SALERNITANA”, N.S. 11/1989, pp.119-132). |
Piazza Agostino
Magliani
Mino Schiavo Morì “povero” Agostino Magliani, il grande e discusso economista laurinese. Di suo aveva pochissimo: i libri, un orologio con catena d’oro, qualche tabacchiera di metallo prezioso. Furono donati ai nipoti Roberto ed Edoardo, figli del fratello Filippo e di Antonia Pesce. Terreni e case, acquisiti con la vendita di gioielli ed oggetti preziosi ereditati, erano della moglie di 19 anni più giovane, Francesca Gambacorta, la baronessa pittrice per diletto, palermitana, conosciuta nella Firenze capitale del Regno, dove la famiglia la mandò per perfezionare i suoi studi, brillante ed intrigante. Non ebbero figli. Dominava lei in casa e nella società romana dei salotti buoni dell’Ottocento. Era lei che intratteneva le pubbliche relazioni per il famoso consorte. Un salotto di quelli che contavano, tanto da poter interferire nei concorsi universitari a favore dei suoi protetti, tra pettegolezzi e scandali, liti e gelosie[1]. Egli stesso non fu immune da innumerevoli pratiche clientelari, uomo di fiducia, nella Torino capitale, dell’ambiguo Antonio Ranieri, sì proprio quel Ranieri, deputato del Sud, che intrattenne un chiacchieratissimo rapporto settennale con il sommo Giacomo Leopardi, sul quale la benpensante società del tempo ingiustamente volse i pruriginosi ironici strali[2]. Il destino del nostro Agostino fu segnato dalla nascita, infondendovi la natura, benigna o matrigna?, fate voi, superiore intelletto. Quarto dei dieci figli di papà Luigi e di mamma Pascasia Scairati, di Felitto, ricca anch’essa soprattutto per parte di madre, una Passarella, di nome Carissima. Donne fortunate, da questo punto di vista, al pari delle sorelle Antonia e Vincenza Pesce, che andarono in spose ai fratelli Magliani Filippo e Luigi. Manifestò il suo non comune intelletto giovanissimo, a 22 anni, nelle prove d’esame per l’alunnato in giurisprudenza, da far tremare le vene ai polsi: 5 prove scritte, i cui testi di riferimento, in un caso, riportavano, in latino, solo l’inizio del paragrafo. La commissione, severissima, ne rimase sbalordita, anche per le numerosissime citazioni, sempre in latino, perfettamente tenute a memoria. Era, senza alcun dubbio il migliore, ma non fu premiato. Era talmente bravo nel ragionamento e nell’analisi del fatto, che non fu ritenuto adatto come giurista, figura incline maggiormente alla fattispecie astratta. Il suo metodo, insomma, era troppo all’avanguardia: un Poirot o un Maigret e, se si vuole, un tenente Colombo prestato all’economia. Lo si reputò un magnifico tecnico del diritto….e lo pugnalarono al cuore. Non modificò idee e metodo, tanto che la cattedra universitaria di Filosofia del diritto, cui aspirava, divenne un miraggio. Lo capirono i Borbone che era l’uomo adatto per l’Amministrazione del difficile Regno. Me percorse sapientemente e a passo spedito tutti i gradi. Fu il suo’48: una disfatta per le più alte aspirazioni. L’Unità del Paese, poi, rappresentò la resa incondizionata. Che fine avrebbe fatto quel meraviglioso giovane, se non avesse capito che occorreva inchinarsi al nuovo Stato unitario? Ritratto della regina Elena di Savoia dipinto da Francesca Gambacorta |
Palazzo Gambacorta a Pisa
Baciò la mano di Antonio Scialoja, l’altrettanto insigne economista, esule dopo fatti del ’48, conferendo al gesto un valore altamente simbolico: “baciava” lo Stato nascente e se ne dichiarava servitore, mettendogli a disposizione totale il suo ingegno. Gli echi fragorosi di quel periodo non giungevano alle sue orecchie ovattate ed alla mente assorta da problemi che riteneva più alti, anche quelli decisamente meno assordanti che si svolgevano nella sua piccola e nascosta Laurino. Eppure i suoi familiari ne furono protagonisti. Intanto nel periodo immediatamente precedente, il papà, l’avvocato Luigi, come tanti altri notabili, era stato accusato di usurpazioni di terre (nella difesa di Vito aveva edificato un molino, recisi 80 cerri e querce fruttifere; aveva usurpato la Laurella; teneva occupata una strada – strettina di S.Lorenzo -; sotto la torre di S.Agostino si era impadronito di 2 moggia di terreno, piantandovi viti). Il fratello Filippo, Sindaco nel ’48, aveva tenuto un atteggiamento ambiguo, se non irresoluto e pusillanime: fuggì per tre giorni dal paese con altri galantuomini. Sulle vicende della cosiddetta battaglia di Laurino aveva barattato false morti. Il Consiglio comunale, alla morte dell’insigne economista, decise di far confezionare due lapidi, ma non sembra che la deliberazione sia stata eseguita. Bisognò attendere l’ottobre del 1995, quando lo onorammo e lo celebrammo con un grande convegno. Murammo - allora sì! - una lapide nelle cui parole il popolo di Laurino, idealmente, era ben consapevole che fosse scritta per intero, a caratteri d’oro, la sua drammatica e fiera storia. Accanto, quella, altrettanto sofferta, dell’illustre concittadino con le sue tremende responsabilità, dettate, forse, anche dal tempo e dall’ora, e dalla sua eccessiva fede nei presupposti della scienza e delle tecniche, private della visione politica organica più ampia e delle indispensabili e convinte scelte culturali progressive. Mi avvio, mesto, verso il centro della Sua piazza, laddove si staglia sublime il monumento ai Caduti, leggendovi antichi giovanissimi nomi che rivivono nei nostri. Avrei preferito che fosse mantenuta l’intitolazione a Giovanni Amendola, il grande liberale scomparso per le ferite inferte dai sicari fascisti. Ma così va il mondo. Non mi resta che sedermi ai piedi del monumento, contento, comunque, che almeno quel caro ideale punto di riferimento sia stato rispettato. (1] v., per es., M.D’ACUNTO, Scandali in casa di Agostino Magliani, un ministro cilentano, in “ANNALI STORICI DEL CILENTO E DEL VALLO DI DIANO”, n.s. a. I (1995), n.1-2, pp.92-100; [2] Ranieri si avvalse inoltre di un cluster di collaboratori, tra i quali il più importante fu Agostino Magliani, che dalle stanze del potere torinese evase una serie innumerevole di pratiche per favorire le richieste del suo concittadino. Attraverso le relazioni politiche l’avvocato ingrandì anche la sua fortuna professionale, acquisendo clienti legati al mondo degli appalti e delle commesse statali, di cui fu in grado di controllare gli accessi e i canali (p.8); Se molti furono gli impiegati e i funzionari statali a cui Ranieri si rivolse per ottenere favori e agevolazioni con cui soddisfare le istanze della sua clientela, tuttavia tra di loro emerse un uomo che, per le sue abilità professionali e per la capacità di introdursi nei“corridoi” delle istituzioni politiche, riuscì a stabilire con Ranieri un legame così esclusivo, da divenire il perno centrale attorno a cui ruotò buona parte della rete politica del deputato napoletano. Quest’uomo fu Agostino Magliani (p.155), in T. ROMANO, Storia di una rete – Famiglia, professione e politica nel Carteggio di Antonio Ranieri (1855-1865), Tesi di Dottorato di ricerca in storia, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, a.a. 2004-2005. In particolare v. Un tecnico prestato alla politica: Agostino Magliani, pp. 155-167; sui rapporti clientelari pp. 137, 138, 139, 142,144 ed altre; Agostino Magliani con Francesco Crispi |
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C''ERA UNA VOLTA IN AMERICA... Mia cara moglie
B. Durante
Era partito il 24 novembre del 1899 da Napoli imbarcato sulla Augusta Victoria dopo aver visto nascere il secondo figlio Rodolfo, mio padre. Ma Arioppa era un pendolare quasi per la Merica. C'era arrivato già il 1893 a 22 anni per tornare a Laurino e ripartire poi il 1896. Ogni 3 anni un figlio e via per inseguire l'american dream, il sogno americano, che non si realizzò. Alla fine, il 1910, nella valigia di cartone imballò accuratamente il cartello Barber shop della sua barberia di Brooklyn che non decollò mai e lo appese a Laurino, a perenne memoria, nel suo Salone di barba e capelli con accanto il famoso laboratorio fotografico. A Emilio Durante, mio nonno, del mito dell'America restò solo il nomignolo "Arioppa" storpiatura italoamericana di hurry up, sbrigati!
In questa preziosa lettera risalta tutto il mondo degli emigranti di fine '800, le speranze, la durezza della vita, la nostalgia. E viene fuori anche molto del personaggio Arioppa che non trovava pace fra Laurino e Brooklyn. In altre 2 lettere del 1907 c'è tutto lo spaccato di una generazione con la valigia pronta che L'Unità d'Italia appena realizzata, aveva già deluso e costretto a partire oltre l'oceano mare per guadagnarsi il pane e una illusione. Sapeva, però, scrivere Arioppa e, dal tenore della lettera si capisce che sapeva leggere e scrivere anche la giovane moglie Grazia Schiavo. Non era cosa da poco per quegli anni quando l'analfabetismo raggiungeva la spaventosa percentuale del 95% circa. Certo un italiano approssimativo infarcito di errori, anacoluti e dialetto e poi con quella sua propensione ad azzeccare insieme più parole. Lui ripeteva spesso basta per chiudere la lettera, ma poi non poteva fare a meno di riprendere per non recidere quel legame, quel contatto col paese e la famiglia che la scrittura gli garantiva nell'atto di scrivere. Poi non ce la fece più e tornò.
Paterson 15 gennaio 1900
B. Durante
Era partito il 24 novembre del 1899 da Napoli imbarcato sulla Augusta Victoria dopo aver visto nascere il secondo figlio Rodolfo, mio padre. Ma Arioppa era un pendolare quasi per la Merica. C'era arrivato già il 1893 a 22 anni per tornare a Laurino e ripartire poi il 1896. Ogni 3 anni un figlio e via per inseguire l'american dream, il sogno americano, che non si realizzò. Alla fine, il 1910, nella valigia di cartone imballò accuratamente il cartello Barber shop della sua barberia di Brooklyn che non decollò mai e lo appese a Laurino, a perenne memoria, nel suo Salone di barba e capelli con accanto il famoso laboratorio fotografico. A Emilio Durante, mio nonno, del mito dell'America restò solo il nomignolo "Arioppa" storpiatura italoamericana di hurry up, sbrigati!
In questa preziosa lettera risalta tutto il mondo degli emigranti di fine '800, le speranze, la durezza della vita, la nostalgia. E viene fuori anche molto del personaggio Arioppa che non trovava pace fra Laurino e Brooklyn. In altre 2 lettere del 1907 c'è tutto lo spaccato di una generazione con la valigia pronta che L'Unità d'Italia appena realizzata, aveva già deluso e costretto a partire oltre l'oceano mare per guadagnarsi il pane e una illusione. Sapeva, però, scrivere Arioppa e, dal tenore della lettera si capisce che sapeva leggere e scrivere anche la giovane moglie Grazia Schiavo. Non era cosa da poco per quegli anni quando l'analfabetismo raggiungeva la spaventosa percentuale del 95% circa. Certo un italiano approssimativo infarcito di errori, anacoluti e dialetto e poi con quella sua propensione ad azzeccare insieme più parole. Lui ripeteva spesso basta per chiudere la lettera, ma poi non poteva fare a meno di riprendere per non recidere quel legame, quel contatto col paese e la famiglia che la scrittura gli garantiva nell'atto di scrivere. Poi non ce la fece più e tornò.
Paterson 15 gennaio 1900
Paterson 15 gennaio 1900
"Mia cara moglie, virispondo alla vostra lettera la quale molto misono rallegrato che velapassate in buona salute assieme ai miei figli come puro misono rallegrato avervisto mio figlio con il buscoletto di fuori, ma voi però viovisto troppo meschina vicino la fotografia facessevi ancora la carrocchiana. Non fate tanda la oseria penzate di mangiare ebere. Di più viparlo di mme che nel tempo che sono parttito da Napoli malato fino adesso con una fortte bronchite...febre e fredo un giorno sì e un giorno no ma non hoavuto mai questa forte febre e questo forte fredo ma veramente fu una fortuna che miporttai quelle lire cento e più non mi anno avastate mango una settimana ma severamente mi vedevivi avessevi cosa vedere, basta ringrazio sempre Dio che sono passato in meglio che lavoro e sono andato fuori di New York allostesso posto adove lavorava prima che questo mio principale mi tiene come un vero figlio espero che fra breve mandero qualche cosa di moneta e i primi dovete far dire una messa a santa Elena che io odetto S. Elena mia fatemistare bene, basta non appena ricevete mie lettere rispontetemi subito inguando alla casa non statein dubbio che speriamo di farcci prima qualche cosa di moneta pensiamo alla salute che quando gista lasalute gista tutto, basta mia cara moglie pinzate di stare allegramente che le mie intenzioni di non starci molto al più presto che loso io quante volte viochiamato nella mia malattia, basta ringrazio iDio al pundo che mitrovo oggi, basta non altro più che dirvi misalutate mia madre effamiglia misalutate aroberto e sua moglia effigli everamente ho avuto piacere avedere edouardo vicino il ritratto mango selavesse visto perssonalmente misalutate Diodoro misalutate il compare Luigi e Filomena caramente e lidirai che fra breve lo scrivo misalutate il zio peppino Durante effamiglia misalutate a Vincenzo Ippoliti emoglia effigli mi salutate il zio Angelomaria e sua moglie e mariano e moglie e suo figlio misalutate a Vincenzo Ippoliti di Luigi e sua famiglia e li dirai a vincenzo che se percaso lo puo mandare il mandolino per un nostro paesano preandolo anghe in nome mio però a quella forma del suo mandolino sia garandito per il tuono e la moneta gilapaggate voi lloco che io quando non tengo il diverttimento il giorno misembrano ogni giorno un anno, basta salutatemi tutti coloro che mi anno salutato e avvoi ippiù cari saluti abbracciandovi di vero cuore a onito con i figli sotto mi firmo aff. marito Emilio Durante". |
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PARTENO 'E BASTIMENTI: STORIE DI EMIGRAZIONE
Francesco Roberto e Maria Grazia Palladino: BIGLIETTO DI TERZA
PARTENO 'E BASTIMENTI: STORIE DI EMIGRAZIONE
Francesco Roberto e Maria Grazia Palladino: BIGLIETTO DI TERZA
Il piroscafo California, costruito dalla Stephen
& Sons Ltd di Glasgow per la britannica Anchor Line. Varato nel 1872, aveva una stazza di 3287 tonnellate;
lungo 110,33 metri,
largo 12,49; motore ad elica singola; velocita massima 13 nodi; una ciminiera e
tre alberi; due ponti; scafo in ferro. Compì l’ultimo viaggio per New York il
16 febbraio 1904. Fu demolito a Genova nel dicembre dello stesso anno.
Respirò a lungo, profondamente, cingendo con le braccia le acque quiete della baia dell’isola: Ellis Island, Kioshk, l’antica riserva di ostriche degli indiani Manhattan, rifugio di pirati, deposito di munizioni, infine sede della Stazione federale per l’immigrazione; prima in legno di pino della Georgia, poi in muratura dal 1900, dopo un disastroso incendio: con tanto di Registry Room, deposito bagagli, ristorante, biglietteria ferroviaria, ambulatori, ospedale, cucine, mense, biblioteche, sale cinematografiche. Ma pur sempre l’isola delle lacrime, che accoglieva, ai moli del fiume Hudson, gli steerage, i passeggeri con biglietto di III classe.
Al suo fianco, incredulo, un ragazzo di 17 anni, di Carpineto Romano, Pietro Cacciotti, la mente rivolta ad Antonio, Giuseppe, Tommasina, che lo avrebbero seguito dopo qualche anno. Era il 28 maggio 1896: la statua della Libertà che illumina il mondo li accoglieva da gran signora, qual era. Venti giorni di traversata oceanica, il rischio del tifo, della difterite, del morbillo, tanta tanta fame, nonostante gli agguati maligni del cibo avariato.
Francesco Roberto, di Laurino, rigirò orgoglioso tra le mani il biglietto di terza classe, il numero 0001. Fu lui il primo passeggero! I più finivano nella stiva, nelle navi di Lazzaro, ammassati, alle volte più di 2.000 rispetto ad una capacità di 600/1000. Biglietto di terza classe, tra le 150 e le 190 lire, come dire, 600/800 euro d’oggi: più di 100 giornate lavorative di un bracciante agricolo. A Laurino il misero salario giornaliero era di 1 lira, quando veniva corrisposto in moneta. Lui ne pagò 165, su quella carretta…terza classe dei bastimenti e maiali sono la stessa cosa – aveva scritto in una lettera Emilio Durante, Arioppa, il mitico fotografo laurinese, che sbarcò ad Ellis Island quattro o cinque volte.
Avrebbero fondato banche, eretto quartieri, quei due. Eh, sì! I loro risparmi avrebbero dato lavoro a tanti operai, imprese, artigiani locali. Ci pensi, Pietro? Siamo noi i datori di lavoro!, in un fiero abbraccio.
Tanti dollari, ma tanti, per pagare il viaggio di Elena, Angela, Francesco, Emilio, Giuseppe, e della sua Maria Grazia, l’amata moglie. Sarebbero approdati il 26 ottobre 1903, da quello stesso piroscafo, il California, demolito di lì a poco, a Genova, nel dicembre del 1904, dopo che un Decreto Ministeriale del 7 aprile 1904 aveva decretato che si era dimostrato per le sue qualità intrinseche non idoneo al trasporto degli emigranti.
Forse pensò, per un attimo, alle miserie italiane degli ultimi terribili anni: ai disperati contadini trucidati nei moti popolari siciliani, ai giovani soldati mandati a morire ad Addis Abeba, Macallè, Amba Alagi, alla carneficina di Adua, per assurdi sogni imperialistici, alla famiglia di Pietro, ai poveri risparmi, bruciati dalla Banca Romana con false banconote; alle campagne distrutte dalla fillossera, dalla pebina, dalla mosca olearia, al prezzo del pane giunto alle stelle.
Era pulito e rasato, come prescriveva il regolamento, per poter accedere alla Registry Room; forse aveva anche visto sul piroscafo le lamette da barba che Gilette aveva inventato l’anno prima. Ricordò una ad una tutte le prescrizioni imposte dal regolarmento del libretto rosso, che li bollava come analfabeti; quasi certamente rise ricordando la più sciocca tra le tante domande che gli avrebbero poste: Siete sovversivo o anarchico? Poi, la lunga snervante attesa: la quarantena! Niente, rispetto ai sette anni d’attesa prima di rivedere i suoi cari!
Ma, eccola lì! Una Regina, Maria Grazia Palladino, sulla tolda del piroscafo, fiera e altera, nel fulgore della sua piena femminilità: 40 anni di sofferenze e di gioie materne. Una condottiera orgogliosa di quelle due giovanette, Elena ed Angela (14 anni), angeli protettori al fianco dei più piccoli Emilio e Francesco (8 e 5 anni). Non avrebbe potuto farcela senza di loro. Già scolpito il loro amaro destino di donne. Correva l’anno del Signore 1903, il 26 ottobre: tutt’’o turmiento ‘e ‘nu luntano ammore, tutto l’ammore ‘e ‘nu turmiento antico…rivolgendo una preghiera alla Madonna delle Grazie, tanto venerata. Anch’ella guardò pensosa i biglietti di terza: 0011, 0012, 0013, 0014, 0015, in ordine d’età, a rispettare ruoli antichi, tra i primi a guadagnarsi la misera cuccetta: 1 materasso, un cuscino, alle volte cuciti insieme, 1 coperta.
Certo, la legge del gennaio 1901 aveva prescritto precise norme igieniche, un medico militare ogni 700 emigrati, un pasto non disprezzabile: pane fresco o biscotti di prima qualità tutti i giorni, carne fresca o in conserva per 5 giorni la settimana, con piselli e fagioli, riso o pasta ogni giorno, tonno, formaggio e patate nei due giorni di magro, mezzo litro di vino, tre quarti nei giorni in cui non si dava il caffè. Sapìamo che ‘ncera la carne! – pensarono sicuramente i ragazzi. Insomma un pasto da Grand’Hôtel…grazie anche e soprattutto ai tanti operai e contadini caduti in tutt’Italia, in quegli anni, per assicurare ordinamenti più civili.
Ma i numeri continuavano a tormentare quella grande donna, in una sensazione oscura, ancestrale, che pervade solo le madri. Lei in una fabbrica, se tutto andava per il meglio; Emilio e Francesco forse in strada? Venditori di giornali, lustrascarpe, rospi di strada, a raccattare stracci, bottiglie, legna, o anche a rubare? O, un po’ più grandi, ma di poco, in una fonderia, in una miniera, in uno stabilimento tessile, o come cani dei soffiatori, patetica figura di giovanissimi ragazzi, fissi ed assenti gli sguardi nei ripetitivi gesti vicino ai soffiatori di vetro? O nei cantieri edili? Emilio già lo avrebbero preso, 10 ore al giorno per 7 lire e mezzo, cioè uno scudo e un quarto.
Ma no, ma no! Sarebbero andati a scuola. A scuola? Non sapeva come sarebbero stati trattati quegli italian made clothers, “gli straccioni italiani”, soprattutto in quanto meridionali, ritenuti alla stregua di bestioline.
La mortalità infantile dei piccoli italiani al di sotto dei 5 anni toccava punte del 92,2% rispetto alla media cittadina del 51,5% per i fanciulli della stessa età. Il morbillo e la tubercolosi erano devastanti, quest’ultima soprattutto tra le donne.
Sono una bambina di 11 anni. Ogni mattina, prima di andare a scuola, spazzo 3 stanze ed aiuto a preparare la colazione, poi lavo i piatti. Dopo la scuola faccio i miei compiti per un’ora e poi aiuto nel lavoro dei fiori…Andando a scuola consegno in fabbrica il lavoro fatto e tornando a casa ritiro il nuovo lavoro.
Elena, Angela? A casa a confezionare abiti, fiori artificiali, ombrelli…o nelle fabbriche tessili, dell’abbigliamento, alimentari, del tabacco. Le ragazze con meno di 18 anni erano, in media, il 29,7%; le italiane il 41,9%. Nel 1907 ( il 30 maggio) venne anche lo zio Giovanni (45 anni) e Carmine, Gennaro, e poi Emilio, Pasquale, Angelo Maria…. tra i Roberto e….i Di Motta, i Gregorio, i Durante, gli Schiavo, …i…i…i… Intanto gli armatori si erano organizzati al meglio. Altri piroscafi, più “italiani”: l’Europa, dei Cantieri Navali Siciliani (116 posti di I, 2400! di III), il Liguria, dei Cantieri G. Ansaldo di Sestri Ponente (56/1194), il British Prince, al soldo dell’ Italia line, dal 1906 vergognosamente Sannio, dal 1913 sfacciatamente Napoli.
Dal 1861 al 1985 29.036.000 (ventinovemilionitrentaseimila) emigranti italiani: un popolo. Ricordiamolo sempre, soprattutto a chi non sa o non vuole.
MINO SCHIAVO.
Respirò a lungo, profondamente, cingendo con le braccia le acque quiete della baia dell’isola: Ellis Island, Kioshk, l’antica riserva di ostriche degli indiani Manhattan, rifugio di pirati, deposito di munizioni, infine sede della Stazione federale per l’immigrazione; prima in legno di pino della Georgia, poi in muratura dal 1900, dopo un disastroso incendio: con tanto di Registry Room, deposito bagagli, ristorante, biglietteria ferroviaria, ambulatori, ospedale, cucine, mense, biblioteche, sale cinematografiche. Ma pur sempre l’isola delle lacrime, che accoglieva, ai moli del fiume Hudson, gli steerage, i passeggeri con biglietto di III classe.
Al suo fianco, incredulo, un ragazzo di 17 anni, di Carpineto Romano, Pietro Cacciotti, la mente rivolta ad Antonio, Giuseppe, Tommasina, che lo avrebbero seguito dopo qualche anno. Era il 28 maggio 1896: la statua della Libertà che illumina il mondo li accoglieva da gran signora, qual era. Venti giorni di traversata oceanica, il rischio del tifo, della difterite, del morbillo, tanta tanta fame, nonostante gli agguati maligni del cibo avariato.
Francesco Roberto, di Laurino, rigirò orgoglioso tra le mani il biglietto di terza classe, il numero 0001. Fu lui il primo passeggero! I più finivano nella stiva, nelle navi di Lazzaro, ammassati, alle volte più di 2.000 rispetto ad una capacità di 600/1000. Biglietto di terza classe, tra le 150 e le 190 lire, come dire, 600/800 euro d’oggi: più di 100 giornate lavorative di un bracciante agricolo. A Laurino il misero salario giornaliero era di 1 lira, quando veniva corrisposto in moneta. Lui ne pagò 165, su quella carretta…terza classe dei bastimenti e maiali sono la stessa cosa – aveva scritto in una lettera Emilio Durante, Arioppa, il mitico fotografo laurinese, che sbarcò ad Ellis Island quattro o cinque volte.
Avrebbero fondato banche, eretto quartieri, quei due. Eh, sì! I loro risparmi avrebbero dato lavoro a tanti operai, imprese, artigiani locali. Ci pensi, Pietro? Siamo noi i datori di lavoro!, in un fiero abbraccio.
Tanti dollari, ma tanti, per pagare il viaggio di Elena, Angela, Francesco, Emilio, Giuseppe, e della sua Maria Grazia, l’amata moglie. Sarebbero approdati il 26 ottobre 1903, da quello stesso piroscafo, il California, demolito di lì a poco, a Genova, nel dicembre del 1904, dopo che un Decreto Ministeriale del 7 aprile 1904 aveva decretato che si era dimostrato per le sue qualità intrinseche non idoneo al trasporto degli emigranti.
Forse pensò, per un attimo, alle miserie italiane degli ultimi terribili anni: ai disperati contadini trucidati nei moti popolari siciliani, ai giovani soldati mandati a morire ad Addis Abeba, Macallè, Amba Alagi, alla carneficina di Adua, per assurdi sogni imperialistici, alla famiglia di Pietro, ai poveri risparmi, bruciati dalla Banca Romana con false banconote; alle campagne distrutte dalla fillossera, dalla pebina, dalla mosca olearia, al prezzo del pane giunto alle stelle.
Era pulito e rasato, come prescriveva il regolamento, per poter accedere alla Registry Room; forse aveva anche visto sul piroscafo le lamette da barba che Gilette aveva inventato l’anno prima. Ricordò una ad una tutte le prescrizioni imposte dal regolarmento del libretto rosso, che li bollava come analfabeti; quasi certamente rise ricordando la più sciocca tra le tante domande che gli avrebbero poste: Siete sovversivo o anarchico? Poi, la lunga snervante attesa: la quarantena! Niente, rispetto ai sette anni d’attesa prima di rivedere i suoi cari!
Ma, eccola lì! Una Regina, Maria Grazia Palladino, sulla tolda del piroscafo, fiera e altera, nel fulgore della sua piena femminilità: 40 anni di sofferenze e di gioie materne. Una condottiera orgogliosa di quelle due giovanette, Elena ed Angela (14 anni), angeli protettori al fianco dei più piccoli Emilio e Francesco (8 e 5 anni). Non avrebbe potuto farcela senza di loro. Già scolpito il loro amaro destino di donne. Correva l’anno del Signore 1903, il 26 ottobre: tutt’’o turmiento ‘e ‘nu luntano ammore, tutto l’ammore ‘e ‘nu turmiento antico…rivolgendo una preghiera alla Madonna delle Grazie, tanto venerata. Anch’ella guardò pensosa i biglietti di terza: 0011, 0012, 0013, 0014, 0015, in ordine d’età, a rispettare ruoli antichi, tra i primi a guadagnarsi la misera cuccetta: 1 materasso, un cuscino, alle volte cuciti insieme, 1 coperta.
Certo, la legge del gennaio 1901 aveva prescritto precise norme igieniche, un medico militare ogni 700 emigrati, un pasto non disprezzabile: pane fresco o biscotti di prima qualità tutti i giorni, carne fresca o in conserva per 5 giorni la settimana, con piselli e fagioli, riso o pasta ogni giorno, tonno, formaggio e patate nei due giorni di magro, mezzo litro di vino, tre quarti nei giorni in cui non si dava il caffè. Sapìamo che ‘ncera la carne! – pensarono sicuramente i ragazzi. Insomma un pasto da Grand’Hôtel…grazie anche e soprattutto ai tanti operai e contadini caduti in tutt’Italia, in quegli anni, per assicurare ordinamenti più civili.
Ma i numeri continuavano a tormentare quella grande donna, in una sensazione oscura, ancestrale, che pervade solo le madri. Lei in una fabbrica, se tutto andava per il meglio; Emilio e Francesco forse in strada? Venditori di giornali, lustrascarpe, rospi di strada, a raccattare stracci, bottiglie, legna, o anche a rubare? O, un po’ più grandi, ma di poco, in una fonderia, in una miniera, in uno stabilimento tessile, o come cani dei soffiatori, patetica figura di giovanissimi ragazzi, fissi ed assenti gli sguardi nei ripetitivi gesti vicino ai soffiatori di vetro? O nei cantieri edili? Emilio già lo avrebbero preso, 10 ore al giorno per 7 lire e mezzo, cioè uno scudo e un quarto.
Ma no, ma no! Sarebbero andati a scuola. A scuola? Non sapeva come sarebbero stati trattati quegli italian made clothers, “gli straccioni italiani”, soprattutto in quanto meridionali, ritenuti alla stregua di bestioline.
La mortalità infantile dei piccoli italiani al di sotto dei 5 anni toccava punte del 92,2% rispetto alla media cittadina del 51,5% per i fanciulli della stessa età. Il morbillo e la tubercolosi erano devastanti, quest’ultima soprattutto tra le donne.
Sono una bambina di 11 anni. Ogni mattina, prima di andare a scuola, spazzo 3 stanze ed aiuto a preparare la colazione, poi lavo i piatti. Dopo la scuola faccio i miei compiti per un’ora e poi aiuto nel lavoro dei fiori…Andando a scuola consegno in fabbrica il lavoro fatto e tornando a casa ritiro il nuovo lavoro.
Elena, Angela? A casa a confezionare abiti, fiori artificiali, ombrelli…o nelle fabbriche tessili, dell’abbigliamento, alimentari, del tabacco. Le ragazze con meno di 18 anni erano, in media, il 29,7%; le italiane il 41,9%. Nel 1907 ( il 30 maggio) venne anche lo zio Giovanni (45 anni) e Carmine, Gennaro, e poi Emilio, Pasquale, Angelo Maria…. tra i Roberto e….i Di Motta, i Gregorio, i Durante, gli Schiavo, …i…i…i… Intanto gli armatori si erano organizzati al meglio. Altri piroscafi, più “italiani”: l’Europa, dei Cantieri Navali Siciliani (116 posti di I, 2400! di III), il Liguria, dei Cantieri G. Ansaldo di Sestri Ponente (56/1194), il British Prince, al soldo dell’ Italia line, dal 1906 vergognosamente Sannio, dal 1913 sfacciatamente Napoli.
Dal 1861 al 1985 29.036.000 (ventinovemilionitrentaseimila) emigranti italiani: un popolo. Ricordiamolo sempre, soprattutto a chi non sa o non vuole.
MINO SCHIAVO.
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LA PRIMA EMIGRAZIONE LAURINESE OLTREOCEANO. I NUMERI DELL'ESODO
SULLE CARRETTE DEL MARE B. Durante Dal 1884 al 1900 emigrarono da Laurino 923 persone. Dal 1900 al 1915 ne partirono altre 1007, in totale quasi 2.000. Se si tiene conto che, nello stesso periodo, la popolazione del paese si mantenne sostanzialmente intorno ai 3.000 abitanti, si può affermare che nei 30 anni considerati, ogni anno un centinaio di persone, il 5% circa, affrontò l'avventura (la sventura) dell'emigrazione. In pratica, in una generazione 2/3 dei laurinesi aveva fatto valigia. Un vero e proprio salasso demografico. Eppure nel 1921, malgrado l'eccidio della grande guerra, Laurino contava addirittura 3259 residenti, più del 1861. Il tasso di natalità era talmente alto da superare persino l'esodo biblico oltreoceano e la tragedia bellica. Le famiglie numerose, soprattutto contadine, di una decina di componenti fra genitori e figli erano la normalità. Sembra un controsenso ed invece c'era una logica perversa: i figli erano braccia di lavoro, ma poi anche bocche da sfamare. Una contraddizione senza soluzione. O meglio una c'era, l'emigrazione. Le principali destinazioni dei laurinesi con la valigia di cartone furono gli Stati Uniti, il Brasile, l'Argentina, l'Uruguay, il Venezuela, paesi dove d'altronde si indirizzava l'emigrazione italiana soprattutto meridionale. I porti di imbarco principali erano Genova e Napoli. I bastimenti a vela, solo alla fine dell' Ottocento sostituiti da quelli a vapore, erano spesso autentiche "carrette del mare". Si viaggiava ammassati in coperta o nelle stive come animali in condizioni igieniche spaventose. Si moriva in serie di tifo e di colera. I numerosi naufragi contarono diverse migliaia di morti. Ma ieri come oggi nel Mediterraneo, i morti di fame facevano notizia solo per qualche giorno. Si è calcolato che gli oriundi italiani sparsi per il mondo e discendenti degli emigranti, assommano a più di 90 milioni, una volta e mezza la popolazione residente in Italia. In Argentina e Uruguay sono circa il 50% della popolazione. |
LA SECONDA EMIGRAZIONE LAURINESE. IL DESERTO NEL PAESE
Nel 1951 a sei anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Laurino contava ancora 3140 abitanti, salendo 10 anni dopo, nel 1961, addirittura a 3173. Oggi di residenti effettivi ne sono registrati 1800 circa. La popolazione si è dimezzata, quasi, trasformando il paese in un deserto che rivive solo intorno al mese di agosto. Di circa 1700 case la metà è sbarrata e in vendita. Ma si continua dissennatamente a costruire vulnerando i terreni e il paesaggio. La campagna è desolata con gli ultimi anziani contadini e pochi emigranti di ritorno che tentano coltivazioni specializzate (vite e grano) e il mantenimento degli uliveti. Una agricoltura eroica di affezione più che altro o di minima imprenditorialità. La proliferazione incontrollata di cinghiali e cervi introdotti dal Parco sembra abbia dato il colpo di grazia. Il crollo demografico questa volta sembra definitivo. Non si avverte da decenni nessuna inversione di tendenza e la crisi economica attuale pare non lasciare scampo. L'emigrazione che ha spopolato il paese, i paesi del Cilento e del Meridione, si è diretta negli anni '60 soprattutto in Germania, Francia, Svizzera, ma ancor più nel Norditalia del "miracolo economico". Colonie cospicue e attive di laurinesi si sono insediate a Monaco, Francoforte, Amburgo, Basilea, Ginevra, Losanna, Parigi. Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, ecc. sono stati e sono gli insediamenti italiani preferiti. L'istituzione del Parco Nazionale del Cilento che tante speranze di sviluppo aveva suscitato ha deluso in gran parte le aspettative. Ma l'eccellenza naturalistica degli ambienti marini e montani dell'intero Cilento restano comunque l'unica prospettiva realistica per il decollo di un turismo di qualità. Laurino in più possiede un patrimonio d'arte impareggiabile con centinaia di pitture, sculture, architetture molte delle quali autentici capolavori. Natura e arte potrebbero essere il futuro del paese per evitare il tracollo definitivo. |
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LU NORDESTE
B. Durante I giovani vanno via a cercare futuro al Nord. I paesi diventano deserti e silenziosi. Restano i vecchi a custodire radici rinsecchite e a parlare con i morti. Jamu, jamu saglimu a lu Nordeste, ddà n’aspettanu tutti a bbrazza aperte, nni ranu la fatija e la misata, basta lu scuornu r’esse risuccupati. Jamu uagliù, nu ppirdimu cchiù tiempu, facimu li bbaligge e appalurciamu ca a chi resta nisciunu proje ‘na manu si già iddu si puzza ra la fama. |
Jate, jate, currite a lu Nurdeste,
cche cazzu stati ccà senza fa’ niente, currite pocca, facitili cuntienti a li patruni, futtitivenne si ddà siti tirruni. Jatevenne ca ccà ristamu nui, sulu li viecchi ri huardia a li strippuni e ppì gghì a ciutija’ senza cchiù chiantu, ‘nzieme a li muorti inta lu campusantu. Si nun ‘nci simu cchiù quannu turnate nun ‘nci chiangiti, facitivi capaci ca nui nascemmu a n’ebbica sbagliata. Lu scuriazzu ‘ncoppa lu cuzzettu, nni sculurzaru peu ri li muli. Era già sciorta c’aviemma murì suli. |
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LACREME NAPULITANE
(BOVIO - BUONGIOVANNI,1925) Mia cara madre, sta pe' trasí Natale, e a stá luntano cchiù mme sape amaro.... Comme vurría allummá duje o tre biangale... comme vurría sentí nu zampugnaro!... A 'e ninne mieje facitele 'o presebbio e a tavula mettite 'o piatto mio... facite, quann'è 'a sera d''a Vigilia, comme si 'mmiez'a vuje stesse pur'io... E nce ne costa lacreme st'America a nuje Napulitane!... Pe' nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule, comm'è amaro stu ppane! Mia cara madre, che só', che só' 'e denare? Pe' chi se chiagne 'a Patria, nun só' niente! Mo tengo quacche dollaro, e mme pare ca nun só' stato maje tanto pezzente! Mme sonno tutt''e nnotte 'a casa mia e d''e ccriature meje ne sento 'a voce... ma a vuje ve sonno comm'a na "Maria"... cu 'e spade 'mpietto, 'nnanz'ô figlio 'ncroce! E nce ne costa lacreme st'America |
Mm'avite scritto
ch'Assuntulella chiamma chi ll'ha lassata e sta luntana ancora... Che v'aggi''a dí? Si 'e figlie vònno 'a mamma, facítela turná chella "signora". Io no, nun torno...mme ne resto fore e resto a faticá pe' tuttuquante. I', ch'aggio perzo patria, casa e onore, i' só' carne 'e maciello: Só' emigrante! E nce ne costa lacreme t'America ... |
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LE GUERRE DI DON SCIPIONE
Per fortuna la cannonata austriaca è andata un poco oltre la trincea e il fotografo può riprendere il fumo dello scampato pericolo: anche stavolta la pelle è salva per i fantaccini italiani. Fra un attacco e l'altro ci si può concedere anche una pausa e un "cicchetto" di vermouth per dimenticare che può essere l'ultimo. Sono solo 3 foto delle oltre cento scattate probabilmente dal tenente medico Scipione Marotta (a destra nella foto sotto, dietro la bottiglia di Cinzano) sul fronte della grande guerra nella valle di Ledro, in Trentino, nel 1916. Una documentazione eccezionale in possesso di Angelo Maria Gregorio, laurinese doc e professore a Salerno che abbiamo il piacere di annoverare fra i soci sostenitori e collaboratori. Assieme ad Angelo ne faremo una mostra aprendo una collaborazione anche con i Musei della Grande Guerra di Trento e Rovereto. I caduti laurinesi nella carneficina del primo conflitto mondiale furono decine. I loro nomi sono incisi nella pietra del monumento in piazza. Peraltro don Scipione, scampato alla prima guerra stava per lasciarci le penne nella seconda, nel 1944, sfuggendo per un pelo al rastrellamento dei tedeschi a Vipiteno, pensate un po', dove era finito medico condotto e dove qualcuno ancora lo ricorda. |
Filtrando fortunosamente fra le maglie tedesche e fasciste e forte della sua esperienza da militare, riuscì a ricondurre a casa la famiglia percorrendo a piedi l'intera penisola (Marcello il figlio più piccolo aveva una decina d'anni) da Bolzano a Laurino. Raccontava lo stesso Marcello che ci impiegarono 2 mesi. Don Scipione ogni volta mi chiedeva di Vipiteno dove aveva lasciato il cuore e gli sci, ma non era più tornato.
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UN SINDACO GARIBALDINO: MARIANO GAUDIANI
(necrologio da "L'Alento", V. della Lucania, 15 giugno 1907) Nel mattino dell'8 corrente cessava di vivere in Laurino suo Paese natio, il Comm. Mariano Gaudiani nato nel 1841... Noi, da queste colonne non osiamo inviare parole di conforto per l'immenso dolore alla povera consorte al fratello e ai bravi figli Signori Dottor Vincenzo, Avv.Vittorio, segretario Amedeo e Signorina Rachele giacché ogni conforto in questo momento di suprema angoscia sarebbe vano !... Diremo di Lui solo le cose più salienti. Il 1857, per ragioni politiche interruppe gli studi di architettura, che costituivano il suo ideale e sotto la responsabilità del Cav. avvocato Francesco Pagani fu costretto a lasciare Napoli e a far ritorno al paese... Nel 1960 col grado di Luogotenente, sotto il duce Avezzana fu,ai Ponti della Valle, mostrandosi valoroso. Occupò la carica di sindaco del suo paese dal 1864 al 1869. Il 1866 per merito suo furono catturati i due temuti delinquenti, noti nella storia del brigantaggio, Angelo Croce ed Amorelli e ben meritò la Croce di Cavaliere di S. Maurizio e Lazzaro personalmente, consegnatagli dietro incarico speciale del (Ministro degli Interni), dal Maggiore Doria... Il 1866 fu nominato, presidente del Comitato della Pubblica sicurezza meritando sempre molte onorificenze per diversi servigi resi... Fu uno dei primi a cooperarsi per la distruzione con successo della famosa e terribile banda Masini e raccolse encomi ed onori dalle superiori Autorità. Nel 1880 nominato Maggiore della Milizia territoriale, fu sempre un brillante ufficiale. Dal 1890 al 1895 ebbe la nomina di consigliere e Deputato provinciale. Dal 1898 al 1900 fu componente della Giunta Provinciale Amministrativa e riebbe tale carica dal 1901 al 1905. I suoi studi perfetti e le sue qualità eccezionali gli procurarono sempre i migliori attestati di stima e di lode... Giunsero moltissirni telegrammi alla famiglia ed al Sindaco signor Marotta; ricordiamo solo i seguenti inviati da: On. Matteo Mazziotti; avv. Ippoliti; signor Giuseppe Trotta; Cav. De Gregorio; Comm. Angelo Pesce Ispettore Generale al Ministero dell'Interno; ing. Aquaro; Cav.Beniamino Mazziotti; Prof. Ciardo; famiglia Trotta Domenicantonio; Giunta Prov' Amministrativa; Sindaco di Campagna; Avv. Ippoliti; Presidente Deputazione Provinciale,ecc. La copia de "L'Alento" e di altri quotidiani salernitani riportanti la notizia della morte di Mariano Gaudiani, è stata trasmessa da Mario Marotta. |
Roberto Sangiovanni, ultimo a destra, il medico di Garibaldi (foto da Zadalampe)
Camicie rosse a Laurino
Doveva essere un ingegno assai precoce Mariano se a 16 anni era già al secondo anno di architettura. E testa caldissima assai, tanto da beccarsi dalla polizia borbonica un foglio di via obbligatorio con l'obbligo di lasciare Napoli e tornarsene immediatamente al paesello. Tre anni giusti e poi subito camicia rossa al seguito del Generale, nella Brigata Fabrizi, Battaglione Stefano Passero, 19° Divisione Avezzana ai Ponti della Valle nella decisiva battaglia del Volturno che segnò la disfatta definitiva del Borbone, la dinastia più retriva d'Europa. Quella che, con Ferdinando IV, aveva mandato in massa alla forca uomini e donne, ammiragli (Caracciolo) e poetesse (Pimentel Fonseca), alla decapitazione Luisa Sanfelice, popolani e aristocratici. La stessa che già durante la stessa breve parentesi della Repubblica napoletana del fatidico 1799, diede mano libera alle masse sanfediste del Cardinale Ruffo per fare strage di giacobini o presunti tali nella capitale e nei paesi. A Napoli allora fu impiccato anche il giurista laurinese Nicola Rossi cui il paese poi dedicò una via. A Laurino furono trucidati in 19 fra i Gaudiani, i De Gregorio, i Pagano. Per ironia della storia toccò proprio al re più mite, Francesco II, Franceschiello, chiudere il capitolo del Regno delle due Sicilie. Mariano nel giorno dell'entrata con Garibaldi a Napoli aveva appena 20 anni e il sapore della vendetta per i suoi familiari scannati dovette essergli particolarmente dolce. Ma Laurino contava altri garibaldini illustri o meno che abbracciarono con entusiasmo l'ideale unitario e rivoluzionario. Fra loro c'era addirittura il medico personale del Generale, Roberto Sangiovanni, figlio del professore universitario Giosuè e nipote di quel napoleonide incallito, Benedetto, capitano della Guardia Nazionale dal coltello e dallo schioppo facile. Oltre a far fuori gli assassini del '99 e altre 5 o 6 persone per motivi più o meno futili. "lardiò" col coltello nelle "pudenda" una sua amante sospettata di tradirlo. Un tipetto assai poco raccomandabile il capitano. Altro garibaldino in camicia rossa fu Francesco Fiasco commilitone di Mariano nella stessa brigata. Di lui si conserva l'attestato originale di servizio che doveva servirgli per essere inquadrato nell'esercito regolare del nuovo regno. Ma come si sa le aspettative andarono deluse e fu uno dei motivi del successivo disincanto di Garibaldi. "Non sono pentito di quello che ho fatto", scrisse a un suo amico, "ma certo non lo rifarei più anche perché se tornassi in Sicilia mi prenderebbero a sassate" . Naturalmente poi tornò lo stesso per completare la conquista di Roma e i suoi seguaci non solo non gli tirarono i sassi, ma accorsero come sempre numerosi. A tirargli non pietre, ma fucilate furono invece i bersaglieri savoiardi "dalle belle braghe bianche" che lo ferirono ad una coscia sull'Aspromonte e dovette rinunciare, ma questa è un'altra storia. Realpolitik, realismo politico la chiamano. Ultimo garibaldino conosciuto fu Antonio (?) Gregorio padre di Ciccu ri Fra' Luca, il bisnonno di Angelo "zucca". Era famoso non solo per essere stato garibaldino ma perché era uso "correggere" il latte con un paio di bicchierotti di robusto vino rosso paesano. Ed era forte come un toro e come un toro il colore rosso lo eccitava alla battaglia. Fino ai 100 anni. B. Durante |
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FERDINANDO IV DI BORBONE, RE "NASONE" E LAZZARONE.
Nelle monarchie europee dove re e regine erano tutti parenti a causa di matrimoni incrociati, non era raro che gli eredi al trono venissero un po' tarati o scemi. Ne abbiamo qualche ultimo esempio anche oggi. Ferdinando IV però esagerava per rozzezza ed ignoranza. Per il suo naso monumentale, i "lazzari" fra i quali amava intrattenersi nelle bettole parlando solo napoletano, gli avevano affibbiato il nomignolo di nasone. Gli altri lo chiamavano lazzarone. E mai soprannomi si rivelarono più azzeccati (anche se Pinocchio ancora non c'era) essendo il re nasone, oltre che reazionario e forcaiolo al massimo, il più gran bugiardo, spergiuro, traditore e pauroso cagasotto. Teneva, infatti, l'ammiraglia con le vele sempre pronte a svignarsela in Sicilia appena le cose si mettevano male. Fuggì due volte, dimenticandosi a Napoli persino la famiglia. Una cosa gli veniva però bene: la caccia alla selvaggina e alle sottane, fossero contadinotte, operaie di San Leucio o nobildonne. Bisogna dire che per infedeltà era ampiamente ricambiato dalla moglie, la regina Maria Carolina d'Asburgo, che contava figli (18) e amanti a iosa. In punto di morte lei confessò di aver frequentato (per curiosità, sosteneva) anche un bordello. Lui pur essendo un uomo ampiamente spregevole per rozzezza e crudeltà, aveva tuttavia assimilato dai suoi amici plebei, tutta l'arguzia del popolino napoletano. Al figlio che lo metteva in guardia sulle poche virtù della sua amante, Lucia Migliaccio duchessa di Partanna, poi sposata morganaticamente,.. "si dice che la duchessa sia una puttana..", rispondeva causticamente: ... penza a mammeta, guaglio', penza a mammeta... |
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Angelo Pesce e la cultura
napoletana di fine Ottocento
(estratto)[1] Di Angelo Pesce[2], in qualità di Prefetto del Regno d’Italia, si sa abbastanza; relativamente poco, invece, dei suoi anni giovanili, con particolare riferimento alla sua formazione culturale. È assiduo frequentatore del Circolo filologico napoletano, fondato da Francesco De Sanctis nel 1876, nel quale squisito ed affascinante conferenziere delle eroine ovidiane e divulgatore dell’epopea indiana, soprattutto per le signore e le signorine della Napoli bene, è Francesco Cimmino. Quando, poi, si parlava di Rama, l’eroe per eccellenza, fremiti e sussurri d’aristocratica eleganza. Poi tutti a via Toledo, alla Riviera di Chiaia o a Mergellina. Con lui Giuseppe Giacosa, Enrico Panzacchi, Matilde Serao. È il periodo della belle époque napoletana: salotti, conferenze, eventi musicali. Il fior fiore della cultura napoletana, riferimento di rispetto : Benedetto Croce, Emanuele Gianturco, Vittorio Pica, Onorato Fava, Michelangelo Schipa, Ferdinando Russo, Luigi Conforti, Federico Verdinois. Il giovane Angelo tiene un’ applaudita conferenza al Circolo filologico sul tema L’amore e la foresta. Nel 1890 aveva pubblicato, con i prestigiosi tipi dello stimato e raffinato editore Luigi Roux, un impegnativo ed apprezzato studio, forse ampliamento della tesi di laurea, Heroides: tipi femminili in India e in Grecia, evidente calco psicologico della frequentazione con Francesco Cimmino e dei comuni interessi, che lo avevano spinto a seguire dei corsi, presso il prestigioso Istituto Orientale di Napoli, in lingua araba e indostana… Heroides… eroine…della sofferenza e della femminilità offesa…grandi nella miseria, anzi nel martirio…forse soffocate da uno psicologismo appassionato e sentimentale, per un certo verso simili alle “eroine” di alcuni racconti della Serao. Nel secondo semestre del 1991 assume la direzione della rivista illustrata di letteratura ed arte Cronaca partenopea. Gli interessi di Angelo appaiono ben delineati: la filologia, la critica letteraria, l’arte, il giornalismo, l’antichità classica, l’etica sociale delle religioni, l’orientamento liberale neoguelfo (permeato, come detto, da forti elementi della tradizione educativa classica), con particolare riferimento alla condizione ed al ruolo della donna e, soprattutto, ai suoi delicati risvolti psicologici. Difficile conciliarli con il lavoro presso l’Amministrazione dell’Interno, nella quale, ad una anno dalla laurea, per concorso, era entrato, a livello provinciale, quale alunno di prima categoria, primo scalino della carriera prefettizia. Gli riuscì agevole: la prova scritta verteva sulla storia letteraria d’Italia, quella orale sulla storia d’Italia dal medioevo ai suoi giorni. Giovane sposo, nel 1996, collabora con il senatore della destra conte Giovanni Codronchi-Argeli, designato commissario civile in Sicilia in un periodo quanto mai difficile della storia d’Italia e dell’isola, ma, soprattutto, successivamente, quale segretario ed uomo di fiducia di Giuseppe Saredo, presidente del Consiglio di Stato, nella delicata inchiesta sul malcostume nell’amministrazione di Napoli e sui legami con la camorra. Per il lavoro svolto a Napoli in maniera inappuntabile è conferito ad Angelo Pesce il primo grado delle onorificenze dell’Ordine dei SS.Maurizio e Lazzaro (cavaliere di Gran Croce). Il Saredo, intanto, era stato nominato senatore del Regno. L’ambiguità della morale, l’ipocrisia, la posizione subordinata delle donne nella famiglia, nella società e nel matrimonio, i diritti calpestati, l’incomunicabilità familiare rappresentano idee moderne e progressiste, inserite in un quadro di prepotente richiesta d’emancipazione. Questo è il quadro socio/politico/letterario in cui è inserito Angelo Pesce. S’indirizza, poi, verso altri impegni. La vita pratica e lo Stato, insomma, lo “rapiscono”, nelle alterne vicende delle umani sorti. Si immerge,insomma, nella storia con la guida del filo conduttore del suo Dio, che appare simile a quello immaginato da Herder: Con la guida di questo filo conduttore mi addentro nel labirinto della storia e vedo dappertutto un ordine divino armonico, giacché tutto quello che mai può accadere accade, e ciò che può operare opera. Ma soltanto la ragione e l’equità durano, mentre la stoltezza e la follia devastano se stesse e la terra. Ne subisce le pesanti contraddizioni e i tristi disinganni, allontanandosi, col tempo, dal comune sentire delle persone a lui più vicine, in particolare da Francesco Saverio Nitti. |
Certo, teneva in grande considerazione, per natura, le sue qualità (è proprio dei grandi uomini innamorarsi precocemente, farà dire, nel 1897, al giovane protagonista di un breve racconto), tanto da esaltarle caparbiamente, durante tutto il corso della sua importante carriera, attraverso un alacre lavoro. Da questo punto di vista era rimasto, nell’ambito dell’Amministrazione statale, fedelissimo servitore, applicando, i metodi propri della filologia classica di stretta osservanza. I suoi asettici criteri di imparzialità e di giustizia, nell’ambito di un rigido indirizzo amministrativo, supportati dai tratti propri dell’educazione e della personalità, vanno letti in questo quadro.
Ne paga le conseguenze, sostituito due volte, in qualità di prefetto, a Milano (1920) da Francesco Saverio Nitti e a Napoli (1921) da Benito Mussolini, pur senza colpe specifiche, anzi con apprezzabili meriti, al di là di qualche discutibile, ma convinta scelta, in un’atmosfera socio/politica densa d’incognite. Con la scomparsa del padre deciderà…di pensare seriamente alla carriera e di prendere moglie. Avrà la fortuna di sposare, nel 1896, un’intelligente giovane aristocratica nobile, di cuore e di casato, Teresa Taurelli Salimbeni, ricordata come vera Signora, amabile e semplice, di pari giovanile sensibilità. Non poteva essere altrimenti. Si chiude il ciclo degli anni più belli, delle pubblicazioni letterarie, dell’ardore innocente e delle speranze in un mondo migliore. È davvero difficile immaginare il complesso mondo interiore di questo giovane, in alcuni tratti tanto ingenuo da indurre alla tenerezza, certamente ricco e puro, ma, evidentemente, anche lacerato. Vive la sua giovinezza con pienezza d’interessi e di passione in un tempo che si rivela non essere storicamente il “suo” tempo. Anzi, à rebour, oso dire, precorre quei tempi in un continuo oscillare tra il mito e la realtà, proiettato in una visione della vita e del mondo anteriore ai grandi avvenimenti che determinarono un nuovo spirito dopo l’unità del Paese. In queste due foto affiancate il Prefetto in inappuntabile abito bianco e cravatta, torna con i suoi numerosi accompagnatori da una escursione a cavallo sul Monte Cervati, 1914.
(foto Arioppa) MINO SCHIAVO 1] Saggio in pubblicazione [2] Laurino (SA), 21/12/1864 – Roma, 7/2/1925 (v. G. PADULO, Un prefetto conservatore (1909-1925): Angelo Pesce in Istituto italiano per gli studi storici, “Annali”, VI, 1978/1980, pp.299-316); |
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Laurino: balle e Storia
B. Durante Laurino è nobile di storia e di cultura. Lo è sempre stata sin dal suo sorgere sulla collina. Le sue origini come borgo fra il IX e il X secolo, sono a grandi linee sufficientemente note. Le pur frammentarie fonti storiche e le indagini archeologiche confermano che il primo nucleo urbano sorse per la concorde volontà dei Longobardi, nuovi signori del territorio e i monaci italogreci, insediati nelle numerose grotte della laura e portatori di fede e sapienza agricola. Fu da questa tacita alleanza che le sparse genti sannitiche-lucane trovarono una stabile organizzazione amministrativa ed economica. Per la sua posizione strategica sulla diramazione delle vie del sale e del grano, fra il mare e il Vallo di Diano, Laurino diventò subito importante acquistando con Gisulfo I il titolo di Contea e poi una robusta cinta muraria con i normanni. Con gli svevi il castello era proprietà demaniale e può darsi che proprio allora diventasse civitas, città. Ciò non impedì che il grande imperatore Federico II, nel 1246, la radesse al suolo per aver appoggiato i Sanseverino nella Congiura di Capaccio. Sotto l'illuminata signoria degli stessi Sanseverino e poi dei duchi Carafa e Spinelli, Laurino prosperò diventando importante centro di irradiazione di cultura e di arte fino alla caduta del feudalesimo e all'avvento dell'Unità d'Italia. Tutto questo per dire che la storiografia non lascia spazio alcuno a miti e leggende del passato, spesso autentiche panzane, che ancora oggi hanno corso legale attraversando il web e, con imbarazzante ignoranza, anche siti ufficiali. Occorre fare chiarezza una volta per sempre. A nessuno è lecito contrabbandare balle per verità storiche. Ci facciamo inoltre solo brutte figure. 1) Laurino non è mai stata municipium romano. I romani non si inoltrarono mai nel Cilento più interno, restando insediati lungo la costa nelle ex città greche e raggiungendo il Brutium, la Calabria per la via Popilia attraverso il Vallo di Diano. In epoca romana Laurino neppure esisteva. 2) Laurino dunque non ebbe mai un Gymnasium e una Palestra tipiche istituzioni romane. Se una scuola vi fu, forse dovette essere qualche studio ecclesiastico nell'ambito dei monasteri esistenti. La Palestra poi fu creata solo in epoca fascista (!) al posto dove adesso c'è l'aula consiliare. °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° STORIA E BALLE
La misteriosa Via istmica Mino Schiavo Fui distolto dalla distratta lieve passeggiata da uno strombazzamento orripilante, in quel di S.Maria di Castellabate: un pullman bellissimo, scoperto, variopinto, a due piani. Al piano alto una distinta coppia dall’aspetto teutonico. Sulla fiancata una paurosa scritta: Citysightseeing. Scappai subito, impaurito, ad acquistare i giornali che mi avrebbero tenuto ottima compagnia pomeridiana. Mah!... la scritta…tedesca non certo, inglese presumibilmente. City, d’accordo, “città”; sight, “vista”, “veduta”, “spettacolo”; seeing, “capacità di vedere”. Ne dedussi che era una “cosa” che aveva in sé la capacità di rendere visibili luoghi, evidentemente comodamente seduti. Insomma…un’entità filosofica. Un manifesto…Citysightseeing…o Dio! Mi perseguita! Propagandava itinerari cultural/turistico/gastronomici il Parco nazionale del Cilento e del Vallo di Diano. Tra l’altro, ogni venerdì, passando per la via istmica, sarebbe partito da S.Maria di Castellabate, il torpedone, e avrebbe attraversato Agropoli, Paestum, Roscigno Vecchia, Laurino. Che bello, subito pensai, farò felici i nipoti! Le Grandi Madri di casa me lo impedirono…tanto fra qualche giorno saremo a Laurino. Sprucite! Ma come, tentai un’ultima volta…per la Via Istmica. Niente da fare! Mi precedette, a Laurino, il veicolo dei Pokémon. Lo trovai che ci aspettava nella piazza principale del paese…mi sembrava che ci guardasse variopintamente stuortu. La Via Istmica, come l’Eldorado. La trovai, qua e là sparsa per il web cilentano…naturalmente Cilento, 18 itinerari nel Cilento con il “bus scoperto”, oh yes”! Si trattava di un vero e proprio progetto…progetto strada istmica - Itinerario ambientale della via istmica, aree verdi e sentieri…Roccadaspie, Castel S.Lorenzo, Sacco, Teggiano, Bellosguardo, Roscigno…alcune aree di sosta lungo il tragitto, l’installazione di segnaletica e cartellonistica delle strade. In orgasmo mistico un sindaco della zona aveva pensato di predisporre un sentiero turistico di 10 Km., che, partendo dal suo paese…giungesse… al suo paese. Insomma una specie di circuito, raggomitolato su se stesso. Chi fosse riuscito a ritornarvi, pensai, avrebbe avuto un premio, consegnato dalla stessa Autorità, istituzionalmente bardata di fascia tricolore, alla faccia dell’istmo….che s’era trasformato nella circolarità della storia di filosofica memoria. Un’artista di un altro paese, una pittrice, presidente di una associazione, s’era spinta oltre, ma aveva deviato il percorso……Capaccio, Roccadaspide, Aquara, Bellosguardo, Roscigno, Sacco e…giù nel Vallo di Diano, attraverso la Sella del Corticato. Non so se l’associazione, poi, abbia proposto il progetto, Nella città dell’Arte e della Scienza, agli amministratori del Parco. La via, utilizzata fin dall’età del bronzo, avrebbe toccato anche Pietra Cupa, che, mi sembra, fosse il termine di riferimento al quale s’ispirava la stessa associazione. Incominciai davvero a preoccuparmi. E dire che il Parco stesso si era fatto promotore di un Progetto di riorganizzazione e riqualificazione della rete sentieristica con annesso rilievo dei sentieri, riportando in una delle tabelle allegate la Via Istmica…la cui caratteristica sta nel fatto che quasi il 50% del suo tracciato totale è costituito da strade statali, provinciali, comunali o secondarie…76 km, ma solo 7 coincidenti con la rete del Parco…un itinerario di elevata importanza e significatività storica, culturale ed ambientale, che univa le antiche colonie della Magna Grecia da Sibari a Paestum. L’obiettivo era quello di attuare un turismo sostenibile e di qualità nelle aree più interne in un progetto integrato, tale da collegare i due poli di maggiore attrazione turistica, cioè l’area archeologica di Paestum e la Certosa di S. Lorenzo a Padula. In questo tratto, la via istmica avrebbe attraversato aree e siti ricchi di attrattive naturalistiche ambientali e storico culturali, completamente sconosciute al turista. Ottimo ed ingegnoso progetto…tutto chiaro…metti in moto il Citysightseeing! L’ingegno, tuttavia, spinto oltre i limiti, può inciampare nella superficialità, nell’arraffazzonatura, addirittura nella scorrettezza, quando non si è in buona fede. Io credo che lo si sia. Più precisi i Calabri. La cosiddetta Via Istmica è sulla direttrice Sybaris-Esaro-Rosa-Tirreno, incuneandosi nello squarcio dell’orrida gola del Rosa, fra il massiccio Mula e la Montea, per sfociare nella piana di Scalea[1]. E’ la strada che percorrono i pellegrini per partecipare ai festeggiamenti presso il Santuario della Madonna del Pettoruto, una bella Hera classica con il ramo del melograno in una mano. Secondo alcuni studiosi locali passava dalla località Romano, lungo la direttrice Sibari-Laos, percorsa dagli Ausoni, dagli Enotri, dai Greci e dai Romani, poi dai monaci basiliani. Recentemente veniva utilizzata dai contadini che da Maierà andavano a raccogliere il grano nel territorio di Roggiano Gravina. In estate, invece, i pastori vi conducevano le greggi verso Cirella per lavare il bestiame prima di tosarlo[2]. |
3) Completamente idiota è
naturalmente la balla che nel fantomatico Gymnasium laurinese avesse insegnato Pitagora
e che a Laurino avesse soggiornato Ippocrate.
E' addirittura imbarazzante precisare che Pitagora visse nel VII sec. a.C.
e insegnò solo a Crotone e che il grande medico Ippocrate, vissuto a cavallo
del V e il IV sec. a. C. non si mosse
mai dalla Grecia se non per andare in Egitto e Libia..
4) Laurino non ha mai contato 23.000 abitanti o addirittura 25.000 come si ciancia. Sulla base dei dati demografici esistenti, la popolazione del paese con i suoi casali ha raggiunto al massimo le 3500 unità. Solo come mandamento alla fine dell'800 (assieme a Campora, Sacco, Piaggine, Casaletto e Fogna) raggiunse i 10.000. Che nel 1200 possa averne contato più di 20.000 (vedi Wikipedia) è autentica follia senza alcuna base storica. Tanto per dare un'idea, l'intero Ducato di Amalfi (con Agerola, Ravello, Maiori, Minori, Cetara, ecc.) che era la maggiore potenza marinara del Meridione, nel 1278 aveva 8500 abitanti circa! Salerno e Napoli poco più. All'inizio della sua storia Laurino in realtà, dovette contare poche centinaia di cittadini. Nel 1246 quando fu atterrata dalle soldatesche di Federico II si ridusse a 83 famiglie (circa 400 abitanti). Nel 1348 in occasione della grande ondata di peste gli abitanti si dimezzarono. Nel 1561, quando l' Universitas di Laurino (il Comune) si divise ai fini fiscali da Piaggine Superiore e Inferiore, si contavano con i casali complessivamente 695 fuochi (famiglie), cioè circa 3500 abitanti. Nel 1656, durante la nuova terribile ondata di peste, il paese quasi si spopolò. Secondo l' Ebner nel 1708 gli abitanti erano dunque appena 1.077, nel 1795 2.109, nel 1816 1.956, nel 1861 2.142. 5) In Laurino non ci fu mai una stamperia, anzi addirittura una delle prime stamperie d'Italia. Originario di Laurino fu invece un bravissimo stampatore, Tommaso Riccione attivo a Napoli e a Eboli fra il 1555-57, il che alimentò la leggenda nel corso dei secoli. Nessun volume della stamperia laurinese fu mai nella biblioteca dei Pesce o in Calabria (invenzione di I. Bruno). Conclusione: la possiamo finalmente piantare di dare per vere stupidaggini e falsità inventate di sana pianta da sedicenti storici del passato e ripetute senza alcuna verifica in libri, articoli e blog, come pappagalli, da sedicenti conoscitori di Laurino? O addirittura da istituzioni culturali? Possiamo finalmente buttare via quel famigerato "Cilento in fiamme" di Italo Bruno che ha veicolato tutte le fesserie su Laurino ed è stato la peggiore catastrofe che abbia mai potuto colpire la conoscenza storica del nostro paese? . °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Gli studi scientifici ce lo confermano. La via trasversale istmica Thurii-Cerelis collegava attraverso il valico del Passo dello Scalone (774 mt. s.l.m.) la via Annia con la costa tirrenica, passava dalla statio di Pauciuro di Malvito e ricalcava sicuramente la più importante tra le vie preromane di collegamento tra il mare Tirreno e lo Jonio nella Calabria settentrionale. La lunghezza del percorso, partendo da Thurii, va calcolata in circa 62 chilometri e il tempo di percorrenza in 18 ore di marcia effettiva… probabilmente…il segmento stradale “Scillatio (Squillace, la patria di Cassiodoro)-Via Annia” dovrebbe corrispondere pressappoco dapprima alla sinistra idrografica del fiume Corace e poi, attraverso il ponte antico di Marcellinara, alla destra del fiume Amato…incrociando nella piana lametina la via Regio-Capuam.[3] Concordano altri studiosi ponendola tra l’Amato e il Savuto[4]. Ma c’è di più. Nello stesso luogo appena citato è detto che Roberto il Guiscardo, il noto principe salernitano normanno, seguì la via Popilia-Annia (o Capua-Rhegium) da Cosenza a Martirano fino alla piana lametina per flettere poi ad oriente, verso Squillace, da dove raggiunse Reggio utilizzando il tracciato costiero jonico. Che vuol dire ciò? Che il normanno si servì di quella importante via per raggiungere Cosenza, incontrando un famoso cippo scoperto a Polla, per poi andare ad oriente, per motivi militari, utilizzando una strada interna verso Squillace, che potrebbe essere la nostra Via Istmica. Nessuna rappresentazione delle carte più antiche traccia la Via Istmica. La storiografia romana, ci fa conoscere, però, almeno quattro vie istmiche, che congiungono la costa del brindisino e lo Jonio. La storiografia greca (Strabone ed altri) parlano di via istmica per il tratto di penisola che separa Sibari e il Tirreno. Tuttavia i geografi greci definivano vie istmiche i passaggi più brevi da costa a costa…l’espressione veniva derivata da un uso rappresentativo, e non dunque letta come indicazione dell’esistenza di un reale percorso agibile e quindi frequentato….Un ulteriore, clamoroso esempio…viene dalla descrizione geografica di quello che è il punto più stretto della penisola, la via istmica, appunto, posta fra il golfo di Squillace sullo Jonio e il golfo di Gioia Tauro sul Tirreno. Di questo tratto Strabone fornisce le misure: “”Quest’istmo, fra il golfo di Hipponion e quello di Scillunte, misura 160 stadi””. Ebbene, anche in questo caso, non esiste traccia né di scali marittimi né di strade. Di fatto anche i Crotoniati, insediati in quell’area, non furono interessati a questa comoda via di passaggio. Analogamente la ricerca archeologica non ha trovato tracce di un’intensa frequentazione sibarita sul Tirreno neppure nel territorio in cui sorgeva Temsa, la mitica città del rame, posta allo sbocco di quell’asse Crati-Savuto, che collegava la Sibaritide con il Tirreno della più remota antichità.[5] CONCLUSIONI: Molto probabilmente una “Via Istmica”, in generale, non è mai esistita. Certamente non è esistita, qui, nel nostro Cilento, secondo i percorsi proposti. Forse è esistito un collegamento fra la piana di Paestum e Pruno di Roscigno (dove è stato scoperto il carro del principe guerriero, che richiama la cultura della famosissima pestana“Tomba del tuffatore” e che può essere visto in una delle sale del Museo provinciale di Salerno, in Via S.Benedetto), come ha ipotizzato l’illustre archeologa Madame de la Genière in un annuale lontano convegno tarantino). Alla fine, penso che li porterò quei diavoli dei miei nipoti sul Cityseighseeing…e vi andrò anch’io, in barba alle Grandi Madri… e faremo un casino da pazzi…ci porteremo le trombe dei tifosi della curva Sud, strombazzando ad ogni curva…in barba anche agli allibiti teutonici…casomai Professori e-m-e-r-i-t-i presso la terribile Università di Lipsia… Vicie’, mietti in moto! P.s.: Per fortuna le cose cambiano. Il bel (ed ambizioso) progetto del “Volo dell’angelo” è stato finanziato! Noi più anziani, improbabili aeronauti, ci accontentiamo di belle passeggiate tra S. Pietro e S. Sofia. Mi raccomando! Disegnatele bene! [1] v. sito Pollinofantastico, archivio, febbraio 2006. [2] v. il bellissimo sito Ecomuseo – Alto Tirreno cosentino che presenta belle sezioni sulla memoria ritrovata, le tradizioni, il paesaggio, l’archeologia, la mappa dei territori, i paesi; [3] v. L.QUILICI e S. QUILICI GIGLI ( a cura di), Opere di assetto territoriale e urbano, L’Erma di Breitshneider, Roma, 1995, p.10, nota 29 (sono citati studiosi di riferimento del calibro di Maiuri, Givigliano, Taliano-Grasso) e pp.18-19; [4] G. DE SENSI SESTITO (a cura di), Studi sul lametino antico e tardo-antico, Rubbettino, Soveria mannelli (CZ), 1999, p.288 e nota 76; [5] v. G.BARONE, Le vie del Mezzogiorno-Storie e scenari, Donzelli editore, Roma, 1998 e 2002, p.23; . |